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Vent’anni di Germania, unita a metà

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“Wiedervereinigung”. Due parole, “wieder”, di nuovo, e “Vereinigung”, unificazione, per indicare un solo evento, la nascita dell’attuale Repubblica federale tedesca. È il 3 ottobre del 1990 quando i cinque Länder che formavano la Repubblica democratica tedesca, la famigerata Germania dell’Est – Brandeburgo, Meclenburgo-Pomerania Occidentale, Sassonia, Sassonia-Anhalt e Turingia -, decidono di aderire alla Germania dell’Ovest e di adottarne la costituzione. Venti anni dopo, di fronte al Bundestag, il parlamento tedesco, e lungo la strada che conduce alla Porta di Brandeburgo, sormontata dall’enorme biga girata verso quella che una volta era Berlino Est, fervono i preparativi per i festeggiamenti.

“Fu un processo inevitabile, ma drammatico”, ricorda Wolfgang Thierse (Spd), attuale vicepresidente del Bundestag e ultimo segretario del Partito socialdemocratico (Sdp) della Germania Est. “Un terribile tsunami che ebbe come immediata conseguenza il 20% di disoccupazione nell’Est, nonché la totale perdita di competitività delle aziende nazionali. Ma, d’altronde, una volta che i cittadini della Ddr erano entrati in contatto con l’Ovest, una volta che avevamo visto come si viveva al di là del muro, capimmo subito che una Ddr moderna e rinnovata non avrebbe potuto comunque rappresentare una soluzione. Il futuro era una Germania unita”.

Ancora oggi, quei territori, un tempo circondati da un’inespugnabile cortina di ferro, sono afflitti da un tasso di disoccupazione (12%) doppio e un reddito pro capite inferiore di un terzo rispetto alle regioni dell’Ovest: “Non è solo un problema di denaro”, spiega Wolfgang Wieland, rappresentante per i Grünen (Verdi) nel consiglio d’amministrazione della Fondazione federale per la riconciliazione della dittatura della Sed (Bundesstiftung zur Aufarbeitung der SED-Diktatur), “ma piuttosto di mentalità: chi è nato nella Ddr ne è rimasto prigioniero. I cittadini dell’ex Germania dell’Est sono cresciuti in un regime che, nel bene o nel male, li proteggeva e determinava per loro qualsiasi scelta importante: non era lecito sotto la dittatura comunista prendere una libera iniziativa, pianificare la propria esistenza. Dopo la riunificazione, di fronte all’incedere del libero mercato, gli ‘Ossie’ – come venivano chiamati gli abitanti della Ddr dai ‘Wessie’, quelli dell’Ovest – si sono sentiti indifesi, non protetti, impreparati di fronte alla concorrenza, incapaci d’intraprendere qualsiasi iniziativa privata. Ancora oggi, quando piccole imprese prendono vita in questi territori, si tratta quasi esclusivamente di investimenti provenienti dall’Ovest”.

“Nell’Est ci sono aree con buona produttività, quali Berlino, Potsdam, Jena, Dresda”, spiega ancora Thierse, “ma il 95% delle società che investono hanno comunque sede nell’ex Germania Occidentale e, anche se il Patto di Solidarietà II garantisce ai nuovi Länder finanziamenti per lo sviluppo fino al 2019, dopo questa data essi dovranno essere indipendenti e in grado di funzionare come i partner dell’Ovest. Se ciò sarà possibile, allora il Paese potrà considerarsi omogeneo, ma ci vogliono più investimenti nell’Est, soprattutto nel settore della ricerca e dell’educazione”.

“Gli ex territori della Ddr”, ricorda Wieland, “hanno subito una cura intensiva e drastica che ha portato alla chiusura di quasi tutte le vecchie aziende. Oggi le industrie presenti sul territorio sono orientate verso lo sviluppo di nuovi settori industriali, come quello delle energie rinnovabili, già attivo con parecchie compagnie nel Brandeburgo e nella Sassonia-Anhalt. Questa è un’opportunità inedita, che i Länder dell’Est devono sfruttare per poter diventare competitivi a livello internazionale”.

Disoccupazione e prospettive economiche non sono gli unici aspetti che hanno caratterizzato la riunificazione. Sempre più forte è anche la rinascita di un sentimento nazionalista e xenofobo, rimasto sopito, in virtù della vergognosa storia precedente, durante il periodo della Germania divisa. “Quando nel 1990, in Italia”, ricorda Wieland, “la Germania dell’Ovest vinse i mondiali di calcio e il suo allenatore Franz Beckenbauer dichiarò che la Germania, appena avrebbe potuto contare sui fratelli dell’Est, sarebbe diventata imbattibile, percepimmo il pericolo di una deriva nazionalista; ci fu una grossa discussione anche in seguito alla decisione di ripristinare Berlino come capitale, ma, alla fine, bisogna ammettere che la Germania è rimasta europeista e ha mantenuto rapporti di buon vicinato con i paesi confinanti, senza mai reclamare, come altri hanno fatto, i territori persi durante la seconda guerra mondiale”.

“I tedeschi di oggi sono meno nazionalisti degli altri popoli europei”, sostiene Thierse. “Forse lo sono un po’ più che prima del 1990, ma questo è un processo normale in un contesto europeo caratterizzato da una varietà così grande d’identità culturali. Anche il recente exploit dei partiti di estrema destra, il Partito nazionaldemocratico tedesco (Npd) e Unione Popolare (Dvu), che hanno conquistato seggi nei Länder di Brandeburgo, Turingia e Sassonia, va visto nel contesto della drammaticità del processo di riunificazione, come risultato delle paure dei cittadini, in ansia per la possibile perdita del posto di lavoro. Ma l’insorgere dei movimenti di estrema destra non è solo un problema tedesco, quanto di tutti i paesi europei.

“La Germania, da questo punto di vista”, conclude il vice presidente del Bundestag, “è più fortunata e sembra avere imparato la lezione impartitagli dalla storia”.

Di Riccardo Valsecchi (Rassegna.it)

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