Veneto: la secessione vale 20 miliardi
In ballo ci sono tanti quattrini: 20 miliardi. I soldi che il Veneto pretende rimangano dentro i suoi confini. La questione è semplice e complessa allo stesso tempo. Il contesto, con l’implosione della politica, la crisi che randella, i venti anni a vuoto della seconda Repubblica, la riforma oscena del titolo V che invece di snellire il sistema di funzionamento delle autonomie ha moltiplicato per venti gli stati nello Stato di un Paese troppo piccolo, troppo frammentato e troppo indebitato per contenerli tutti quanti. E poi quell’articolo cinque della Costituzione, dell’Italia una e indivisibile, che stronca le gambe a qualsiasi progetto federale e confederale, un argomento nobile, concreto, appassionante, fondamentale per il futuro assetto di un Paese così variegato, ucciso dal suo stesso maieuta, quell’Umberto Bossi rimasto intrappolato nell’autolesionistico pendolare tra autonomia, federalismo e secessionismo.
Come in un remake, dunque, si riparte dall’inizio. Venezia è il luogo simbolo. Riva sette Martiri, dove Umberto riunì la sua armata arrembante il 15 settembre del 1996. «Tra un anno siamo fuori dall’Italia» promise ai suoi. Sappiamo com’è andata. Quella compressione di un sentimento condiviso, il federalismo, ha partorito la corsa agli ismi. Indipendentismo, autonomismo, sovranismo: la crescita senza sviluppo degli anni ’90 si è trasformata nella decrescita infelice di questi tempi.
Come uscirne? L’indipendenza è la proposta estrema, radicale. I veneti guardano alla Scozia e alla Catalogna, ma sanno benissimo che a Costituzione vigente non ci sono chance. Il referendum consultivo regionale si può tenere. Ma poi interverrebbe la Corte costituzionale: in caso di conflitto plateale, Roma sarebbe costretta a commissariare la Regione Veneto e inviare l’esercito o i carabinieri.
C‘è chi vagheggia l’intervento di organismi internazionali come le Nazioni Unite. Se il referendum di Plebiscito.eu sarà validato dalla commissione di esperti internazionali, si potrebbe aprire una trattativa tra i vertici del movimento, la Regione e lo Stato e, perché no, l’Unione europea.
Nella consultazione che si è tenuta tra il 16 e il 21 marzo in Veneto, infatti, c’erano due domande alle quali pochissimi hanno prestato attenzione. La prima: vuoi che il Veneto rimanga nell’euro e nella Nato? Il 51% ha risposto sì. «Una risposta sensata, realista e concreta: altrimenti, come lo ripaghiamo il debito pubblico?» chiosa Marco Bassani, ordinario di Storia delle Dottrine politiche alla Statale di Milano e allievo prediletto di Gianfranco Miglio.
Terza e ultima ipotesi è quella che sostiene di voler intraprendere Bobo Maroni, governatore della Lombardia: subito lo statuto speciale, con il corollario del 90% delle tasse che resterebbero nella regione più ricca e più popolata (9,9 milioni) d’Italia. Una proposta alla quale potrebbe accodarsi anche il Veneto.
Quei 20 miliardi, nel caso lombardo, diventerebbero oltre 60. La somma, guarda caso, coincide con gli interessi sul debito pubblico che ogni anno l’Italia versa ai risparmiatori che continuano a comprare i suoi titoli di Stato. Quattrini che tengono in piedi, sempre più malamente, la baracca. Ce lo possiamo permettere? Bassani lo spiega con un’immagine efficace: «Senza il Lombardo-Veneto, l’Italia sprofonderebbe verso il Corno d’Africa: un sud senza più nord».
Sole24ore