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Usa-Cina: l’asse del nuovo impero

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Il libro “Superfusion” fotografa il G2. L’interscambio fra i due Paesi dà vita ad un gigante da 140 miliardi di dollari. Pechino ha in cassaforte la maggiore quantità di titoli del Tesoro Usa e gli americani consumano “made in China” sostenendo la crescita record del pil

 

Le economie di Stati Uniti e Cina sono a tal punto interdipendenti da essere oramai diventate un’unica realtà. A sostenerlo è «Superfusion», il saggio firmato dall’economista Zachary Karabell che tiene banco a Wall Street come nei centri studi – il «Council on Foreign Relations» gli ha dedicato una seduta di approfondimento ad hoc – perché documenta l’esistenza di «Chinamerica» come di una fonte di ricchezza unica, con un pil combinato che in alcune circostanze arriva ad essere oltre la metà di quello dell’intero Pianeta.
«Il libro di Karabell è una sorta di Bibbia del G2» riassume Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley in Asia, e in effetti la tesi di fondo è che l’anno della recessione globale ha fatto decollare «Chiamerica» per due ragioni convergenti: senza gli oltre 800 miliardi di dollari in buoni del Tesoro Usa detenuti dalle banche cinesi sarebbe stato assai arduo per l’amministrazione Obama stabilizzare il proprio sistema finanziario così come senza gli acquisti di beni «made in China» da parte dei consumatori americani Pechino nel 2008 non sarebbe riuscita ad accumulare le riserve che le hanno consentito di sostenersi, mettendosi al riparo dalla recessione globale fino a chiudere l’anno con una crescita del pil dell’8 per cento.

 

Alla base della «super-fusione» c’è dunque l’interscambio commerciale fra i due giganti che si affacciano sull’Oceano Pacifico, che nel 2007 ha toccato i 410 miliardi di dollari creando un motore di consumi che non ha eguali. La tesi di Karabell è che tale processo iniziò con la scelta fatta dal presidente Bill Clinton, negli anni Novanta, di non condizionare gli scambi commerciali al rispetto dei diritti umani – come gli Stati Uniti avevano invece fatto con l’Urss durante la Guerra Fredda – ed ora Barack Obama continua sulla stessa strada, come la recente decisione di posticipare l’incontro con il leader tibetano Dalai Lama ha confermato.
Il risultato della decisione di Clinton, e l’imminente visita di Obama a Pechino, è per Karabell descritto da due storie di successi economici americani in Cina: la catena del Kentucky Fried Chicken, i cui circa 2000 fast food gli garantiscono il 25 per cento dei profitti globali, e Avon riuscita non solo a imporre i propri cosmetici ma anche a produrne in loco per andare incontro alle richieste delle donne cinesi.
Nel caso di Avon, l’impatto è stato anche quello di trasformare migliaia di donne del ceto medio in venditrici qualificate con redditi decuplicati rispetto al passato e un conseguente aumento dei loro consumi. «Interdipendenza e interconnessione fra Cina e Stati Uniti» portano Karabell a prevedere che i mega-prestiti finanziari di Pechino al Tesoro Usa porteranno «ad aprire il nostro impero commerciale ai loro prodotti» proprio «come fece la Gran Bretagna con i prodotti americani dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale». Da qui il consiglio al presidente Obama di «riorientare la politica verso la Cina» facendo passare in secondo piano «le questioni militari come gli aiuti a Taiwan e le basi in Giappone» dando maggior importanza al «focus economico» per «poter integrare sempre di più i due sistemi». Sperando di risparmiare agli Stati Uniti la fine che fece l’Impero britannico dopo l’ultimo conflitto mondiale.

Di Maurizio Molinari (La Stampa)

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