Un anno del presidente Obama alla Casa Bianca
Il 20 gennaio 2009, un anno fa, Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti, s’insediava alla Casa Bianca: l’America e il Mondo, squassati dalla crisi economica, erano galvanizzati dalle grandi speranze che il nuovo leader sapeva trasmettere. In un anno, non tutti gli impegni si sono tradotti in risultati. Obama, in sintonia con i Grandi della Terra, ha cercato di arginare la crisi e di innescare la ripresa e può ora affermare che il peggio è passato e che la ripresa, pur lenta, è cominciata.
Negli Usa, ha quasi condotto in porto una riforma della sanità che cancella, o almeno riduce, la vergogna di decine di milioni di americani senza assistenza. Nel Mondo, s’è visto assegnare, sulla fiducia, un Nobel per la Pace che deve ancora dimostrare di meritare. Ma, sul piatto della bilancia delle attese non corrisposte, c’è il peggioramento della situazione in Afghanistan, il rinvio della chiusura della prigione di Guantanamo (le torture sono state però bandite), lo stallo del conflitto tra israeliani e palestinesi, una certa timidezza verso l’Iran, una certa sudditanza verso la Cina.
A cavallo tra 2009 e 2010, Obama s’è bruscamente ritrovato alla casella di partenza: quella della sicurezza dell’America e della lotta al terrorismo, oscurata dalla crisi durante la campagna elettorale.
Un anno dopo, il presidente che, su questo terreno, rischiava di essere sconfitto dal suo rivale repubblicano John McCain deve fare i conti con la recrudescenza della minaccia terroristica resa più inquietante dalle inefficienze del sistema d’intelligence e di prevenzione non sanate dai suoi predecessori. Nel suo discorso di fine anno, il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napoletano ha fatto un bell’elogio di Obama: “Nuove luci per il nostro comune futuro sono venute dall’America e dal suo giovane presidente”, che è sempre stato attento alla linea dell’apertura al dialogo con gli interlocutori e del coinvolgimento degli alleati. Obama ha deciso di togliere il segreto su tutti gli archivi della Guerra Fredda ed ha compiuto passi decisi con la Russia verso il disarmo nucleare.
Il presidente si dà un 8 in pagella per le cose fatte – ma, espresso in voti americani, “un bel B+” dell’intervista a Ophrah Winfrey suona meno gratificante, è il nostro 7+ dei tempi di Cochi e Renato. E mantiene una indubbia freschezza di papà e di leader: durante le vacanze di Natale, sfida critici e benpensanti e con la moglie Michelle porta le figlie Sasha e Malia, 8 e 11 anni, a vedere Avatar, sconsigliato negli Usa agli ‘under 13’ (in Italia, invece, la censura non pone limitazioni). I risultati conseguiti non sono finora pari alle attese suscitate neppure nella lotta contro la povertà come nell’impegno sul clima. E il Wall Street Journal, in sede di bilancio, ricorda che i conti pubblici degli Stati Uniti sono sull’orlo del precipizio: il che spiega l’attenzione a evitare d’irritare la Cina, che degli Usa è la principale creditrice. L’America conservatrice torna persino a rimproverare al presidente di essere un nero: a Plains, in Georgia, terra di KuKluxKlan, ma anche paese natale dell’ex presidente Jimmy Carter, compare un manichino di Obama appeso a un cappio; e in Colorado un dipendente statale diffonde un fotomontaggio di Obama lustrascarpe di Sarah Palin.
Errori passati e presenti. Di nuovo alla prese con l’incubo del terrore, il presidente ammette falle disastrose ed errori inaccettabili: non fa saltare teste, ma detta correzioni di rotta immediate. L’arrivo negli aeroporti dei body scanner, che pure suscitano polemiche e perplessità, non è sufficiente: i piani dei terroristi vanno intercettati e sventati prima che i kamikaze arrivino in aeroporto. La maginot della sicurezza nel XXI Secolo non possono essere i banchi dei check in. Il sussulto della minaccia tra Natale e Capodanno scuote l’Occidente e scatena, negli Usa, un’offensiva dei repubblicani, che, con in testa l’ex-vicepresidente Dick Cheney, accusano Obama di avere messo in secondo piano la difesa del paese dai complotti di Al Qaeda. Ma sul presidente pesano anche gli errori di chi lo precedette alla Casa Bianca.
Bill Clinton ignorò, o comunque sottovalutò, la minaccia di Al Qaeda e il rischio Yemen, nonostante la trappola micidiale al cacciatorpediniere Cole all’ingresso della baia di Aden il 12 ottobre 2000, che fece 17 morti e decine di feriti. George Bush rispose agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington più sul piano militare che dell’intelligence e della politica, creando i presupposti per due guerre non vinte (l’Iraq e l’Afghanistan) e infoltendo, con le bombe, i ranghi dell’integralismo e dell’estremismo. Gli episodi s’inanellano, la paura sale: l’attentato di Natale sul volo Delta Amsterdam – Detroit, fallito solo per l’imperizia del kamikaze. La strage di agenti della Cia che, dalla Base Chapman nella provincia di Khost (Afghanistan orientale), coordinavano i raid dei Predator senza pilota sulle aree tribali lungo il confine afghano-pakistano. Le allerte a Times Square e all’aeroporto di Newark (provocazioni? emulazioni? burle criminali? sventati pericoli? false segnalazioni?). La psicosi del terrorismo è tornata, in Italia e nel mondo: dalla California alla Russia, passando per la Svizzera e Malpensa, le ultime settimane sono state segnate da allarmi e, soprattutto, falsi allarmi.
La spada di Damocle delle elezioni di mid-term. Come accadde un anno fa con la crisi, ancora una volta è l’attualità a imporre le priorità dell’agenda di Obama. Il ‘terremoto terrorismo’ e l’onda lunga della sottile insoddisfazione degli elettori, specie per le persistenti difficoltà economiche, rischiano di investire il Congresso. Due senatori democratici hanno annunciato l’intenzione di non ricandidarsi nelle elezioni di mid-term del 2 novembre: i seggi di Chris Dodd, nel Connecticut, e di Byron Dorgan, nel Nord Dakota, sono vulnerabili e così la maggioranza di 60 seggi necessaria a sventare gli ostruzionismi dell’opposizione è a repentaglio, tanto più che il voto di mid-term è tradizionalmente sfavorevole al partito del presidente.
Se le cifre di Facebook continuano a premiare la popolarità di Obama – sette milioni di fan, più del doppio dello sportivo più amato, Cristiano Ronaldo, il presidente, sotto la pressione del terrorismo, incappa in errori d’immagine inconsueti per lui: denuncia la minaccia dalle vacanze alle Hawaii, in un contesto poco credibile di golf e relax, e, nonostante i servizi di sicurezza civili e militari facciano acqua, impiega dieci giorni per convocare alla Casa Bianca un vertice delle 16 organizzazioni statunitensi che si occupano d’intelligence.
Tutte sigle formalmente unificate, fin dal 2005, sotto un unico ‘zar’ – il primo fu John Negroponte, ambasciatore a Baghdad – ma che continuano ad avere difficoltà di comunicazione fra di loro oltre che – figuriamoci! – con i servizi segreti e anti-terrorismo dei paesi alleati. Così un giovane nigeriano integralista dichiarato e aspirante attentatore denunciato dal padre sale indisturbato su un aereo Usa diretto negli Stati Uniti, due mesi dopo avere avuto – nonostante tutto – un regolare visto. Nel 2001, mesi dopo gli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, i servizi d’immigrazione degli Stati Uniti recapitarono a domicilio, a due componenti dei commando suicidi ormai deceduti, le proroghe dei permessi di soggiorno negli Usa.
Deja vu?. Pare il trailer di un film già visto. Al pari delle ipotesi di attacchi preventivi sul territorio yemenita, magari affidati a droni, cioè ad aerei militari telecomandati. Anche se John Brennan, consigliere Usa per l’anti-terrorismo, assicura che non ci sarà l’apertura di un nuovo fronte, proprio mentre il governo yemenita mette un veto a operazioni militari americane e alleate sul proprio territorio, dopo che lo stesso Brennan e il generale David Petraeus, un veterano dell’Afghanistan e dell’Iraq, hanno lodato l’atteggiamento “produttivo” del presidente Saleh.
Nella guerra al terrorismo, lo Yemen, come il Pakistan, sono alleati di Washington ineludibili, ma non totalmente affidabili: lo dimostra, per assurdo, proprio il fatto che, alle strette, le autorità yemenite annunciano a tambur battente (ma poi smentiscono, e infine danno per fatte) la cattura di un capo di Al Qaeda e l’uccisione di alcuni suoi accoliti collegati alle minacce che hanno indotto gli Stati Uniti e altri paesi a chiudere per qualche giorno le loro ambasciate a San’a. Difficile sfuggire al sospetto che quei personaggi fossero già noti e non venissero disturbati.
Alzando la minaccia, Osama bin Laden – ammesso che lui c’entri qualcosa con quanto sta accadendo – ha ottenuto il risultato di rendere il linguaggio di Obama simile a quello di Bush, anche se, per il momento, le scelte restano diverse. Le promesse di rendere l’America sicura, la volontà di colpire i terroristi ovunque essi siano perché loro non ci colpiscano a casa nostra, la ‘tolleranza zero’ verso chi sbaglia e gli annunci di giri di vite ai controlli si susseguono (ma poteva già essere troppo tardi): d’ora in poi, i cittadini di 14 paesi verranno sottoposti a verifiche sistematiche all’imbarco verso gli Usa. A Cuba, Iran, Siria e Sudan, Paesi nella lista degli ‘sponsor’ del terrorismo internazionale, si aggiungono Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Iraq, Libano, Libia, Nigeria, Pakistan, Somalia e, appunto, Yemen.
Per meritarsi ex post la poltrona di presidente e il Nobel per la pace, un premio ritirato dopo avere inviato rinforzi in Afghanistan con quella che giudica la sua decisione “più difficile”, Obama dovrà combattere il terrorismo più con i fatti che con gli annunci, facendo scelte non basate solo sulle opzioni militari o di contrasto, ma sul dialogo, l’economia, l’intelligence. Era già difficile, è più difficile adesso: la situazione nello Yemen complica il puzzle militare e diplomatico del Grande Medio Oriente, dal Pakistan al Marocco.
Di: Giampiero Gramaglia consigliere per la comunicazione dell’Istituto Affari Internazionali.