Scudo, la ricetta dei commercialisti
Sì allo scudo fiscale ma a patto che sia l’ultima volta. Vera lotta all’evasione attraverso il Redditometro. E poi una exit strategy per eliminare l’Irap. E’ questa la ricetta di Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, per risolvere alcuni dei problemi del Paese . Ecco l’intervista rilasciata ad Affaritaliani.it
Il tema più caldo è sicuramente quello dello scudo fiscale. Che cosa pensa di questo provvedimento del governo?
“Lo scudo è indubitabilmente un sacrificio di legalità. Credo però che possa avere dei profili di accettabilità se ricorrono due condizioni. La prima è che sia l’avvio di una lotta senza quartiere ai paradisi fiscali e soprattutto ai paradisi finanziari, che sono i più pericolosi perché non collaborativi. Va da sé che non può esserci un’economia globale con delle regole locali. Per questo il significato dello scudo, così come l’hanno inteso anche gli altri Paesi che l’hanno adottato, è che sia una parte di una lotta a tutto campo”.
Anche il ministro Tremonti ha dichiarato guerra ai paradisi fiscali.
“Non ne dubito. Però da tecnico e da cittadino dico che se questa condizione non fosse osservata, lo scudo sarebbe un’altra picconata alla credibilità del sistema. In parole povere: se un evasore sa che prima o poi arriva lo scudo, è naturale che continui a non pagare. Insomma, deve essere veramente l’ultima volta”.
E la seconda condizione?
“Che i soldi dello scudo siano impiegati per favorire lo sviluppo, e non per tappare buchi. Queste entrate devono servire per stimolare la ripresa”.
Tremonti si attende un gettito di 3 o 4 miliardi dallo scudo fiscale. E proprio in questi giorni si parla di un’adesione boom, pari a circa 60 miliardi. Può fare delle previsioni?
“Non si può ancora dire. Anche perché si tratta di operazioni con profili di riservatezza elevatissimi. E poi molto si vedrà all’ultimo momento. Quanto alle stime fatte da altri, non mi sento di sposarne nessuna. E’ presumibile però che più passerà il messaggio delle serietà dell’ultimatum più ci saranno adesioni. La Guardia di Finanza stima che all’estro ci siano 278 miliardi: se rientrassero tutti, al 5%, si tratterebbe di quasi 15 miliardi. Ma non sarà così certamente”.
Nella lotta all’evasione sono utili anche misure come lo scontrino-gratta e vinci?
“Sempre secondo le stime, si evadono 100 miliardi ogni anno. Che significa, più o meno, 300 miliardi di imponibile sottratti al fisco. Il calcolo è presto fatto: 100 miliardi sono la spesa sanitaria di un anno e sono superiori al peso degli interessi passivi sul debito pubblico, 300 miliardi sono pari a un quinto del Pil nazionale. Pensiamo quindi che successo si potrebbe ottenere se si incidesse veramente sull’evasione. Per questo anche iniziative fantasiose come il gratta e vinci sullo scontrino potrebbero aiutare a recuperare il 2-3%, ovvero 2-3 miliardi”.
Quindi lo scontrino col premio è promosso?
“E’ una misura pratica che risolve un problema. Però comunica un messaggio non del tutto rassicurante: lo Stato per farti fare il tuo dovere ti deve premiare”.
Qual è allora una ricetta vera per sconfiggere l’evasione?
“L’estensione e la revisione tecnica del Redditometro. Si tratta di uno strumento abbastanza semplice: si confronta la ricchezza spesa e la ricchezza dichiarata. Se una persona possiede 3 yacht, 4 ville al mare e due Ferrari, dovrà anche dimostrare in base a quale reddito riesce a mantenere questo tipo di investimenti. Non ho mai conosciuto nella mia vita un evasore che rinunci a esibire la propria ricchezza”.
E gli studi di settore?
“Sono uno strumento che deve continuare ad esistere, ma solo a livello indicativo. Innanzitutto perché è basato su una media, che è un po’ come se si permettesse a chi è sopra di dichiarare di meno, penalizzando invece chi guadagna di meno. E poi perché riguarda solo una parte dei contribuenti, cioè gli autonomi piccoli. Il Redditometro invece riguarda sia gli autonomi sia i dipendenti. E anche i senza lavoro, perché ci sono i falsi disoccupati. Certo, va rivisto perché molta ricchezza è intestata a ottuagenari o a società straniere, ma si possono studiare dei meccanismi per cogliere la sostanza dei problemi. E questo strumento sarebbe capito dai cittadini e farebbe tornare un pò di fiducia negli onesti”.
Cambiamo argomento. Federalismo fiscale, non rischiamo il caos?
“Sì, si rischia la Babele fiscale. Ovvero un caos di aliquote, imponibili, esenzioni… Però è una sfida che dobbiamo raccogliere. Il federalismo sarà davvero realizzato quando una persona sarà indotta a chiedere lo scontrino a chi non glielo fa, perché quello scontrino significa una scuola migliore, un’assistenza sanitaria più adeguata… Però è un percorso lungo, una rivoluzione culturale prima che tecnica”.
Quindi ben venga il federalismo fiscale. Ma come?
“Fondamentali sono i costi standard: alla tale Regione non si rimborsa quello che ha speso ma il costo standard delle gestioni migliori. Così si obbliga tutti ad essere virtuosi. E visto che l’80% della spesa pubblica significa sanità, questo vuole anche dire, ad esempio, che gli ospedali marginali devono essere chiusi. Proprio come trasferire la gestione dal centro alla periferia significa trasferire risorse e personale e non lasciare gli organici da una parte e duplicarli dall’altra. E’ così che si fa il federalismo. Ma i politici devono essere pronti ad affrontare scelte spesso impopolari”.
Infine l’Irap. Tutti benedicono il taglio, lei?
“Il taglio piace a tutti. Anche perché l’Irap è un’imposta ingiusta. L’indeducibilità del costo del lavoro e degli interessi passivi infatti fanno sì che a pagare siano le aziende che in tempo di crisi assumono o ricorrono al credito per sopravvivere. Il problema è che l’Irap ha un gettito di 38 miliardi, il 40% della sanità: non si può cancellarla dall’oggi al domani”.
E allora?
“Sicuramente si può meditare sulla deducibilità del costo del lavoro e degli interessi passivi. Insomma, si può studiare una exit strategy perché si arrivi nel giro di tre anni ad eliminarla completamente. Sostituendola con altre imposte più giuste, che non penalizzano il lavoro autonomo, d’impresa e di professione. Ma c’è bisogno di un percorso chiaro di qualche anno. E non si può fare affidamento solo sulle entrate dello scudo, perché queste ci sono solo per il primo anno”.