Relazione del Segretario Riccardo Stefanelli al 12° Congresso FPI
Signor Presidente, Signori Delegati, Graditi Ospiti,
Abbiamo già avuto modo di riflettere ieri e l’altro ieri su una serie di spunti di carattere generale, e prima di entrare nel merito della tematica specifica del pubblico impiego credo sia utile riassumere il contesto in cui ci muoviamo, così come emerso dal dibattito di questi giorni.
È un contesto quanto mai complesso e difficile, caratterizzato da molti fattori:
una crescente tensione fra superpotenze;
la guerra in Siria in cui è difficile capire il ruolo delle parti in gioco, mentre la popolazione civile fa le spese di questo conflitto senza regole.
C’è poi il terrorismo internazionale (ricordiamo solo gli avvenimenti più clamorosi in Francia e in Belgio).
E c’è la crisi dell’Europa. Non è solo una crisi economica, è innanzitutto una crisi di identità e di valori che coinvolge tutto l’occidente e che si manifesta nella incapacità di portare avanti politiche comuni.
Particolarmente evidente è il fallimento delle politiche di accoglienza dei migranti lasciato sulle spalle dei paesi di confine e caratterizzato anche plasticamente dall’innalzamento di muri e steccati.
Ma ci sono anche divergenze sulla politica estera in particolare nell’atteggiamento nei confronti della Russia e ci sono divergenze sulle strategie per uscire dalla crisi economica tra chi sostene la linea del rigore e dell’austerità, a cui si attribuiscono recessione e deflazione, disoccupazione e bassi salari e coloro che propongono, invece, politiche più espansive.
L’uscita della Gran Bretagna dall’UE è la conseguenza più evidente di questa complessa situazione; situazione che se non troverà una composizione rischia di far implodere l’itero progetto europeo.
Non possiamo dunque non tener conto di questi scenari nel parlare delle cose di casa nostra e non possiamo neppure non tener conto di quanto si muove nel contesto dei cambiamenti nel mondo del lavoro indotti dalle nuove tecnologie come ci ha evidenziato l’altra sera il nostro ospite Marco Bentivogli. Cambiamenti che non riguardano solo i settori produttivi in senso stretto ma anche gli ambiti amministrativi e dunque le pubbliche amministrazioni.
Tornerò più avanti su questi aspetti, ma, dopo questa premessa, veniamo ora alle questioni che più ci interessano oggi.
Ci eravamo lasciati all’ultimo Congresso del 2012 con un impegno; quello di portare avanti la riforma della Pubblica Amministrazione che, fino a quel momento, era stata impostata in alcune sue linee generali, ma che non si era ancora concretizzata.
Ricordo che questo è un obiettivo atteso dal 1998, quasi 20 anni fa.
È difficile pensare che questo ritardo sia dovuto solo alla difficoltà di affrontare un tema certamente complesso, ma non impossibile; più facile immaginare che ci sia stata una volontà, più o meno consapevole, di mantenere la PA in uno stato di eterna precarietà ed emergenza, dove poter intervenire di volta in volta con provvedimenti stralcio, senza troppi vincoli da rispettare.
Questo lungo protrarsi della mancata riforma ha in realtà creato una mentalità; la mentalità secondo la quale una vera riforma della PA sia impossibile; meglio dunque procedere con interventi svincolati da un contesto organico. Una mentalità che assegna alla PA un ruolo marginale e residuale rispetto al contesto economico del Paese, con interventi improntati più a criteri di assistenzialismo che a criteri di qualità ed efficienza.
Si tratta di un atteggiamento in realtà contraddittorio perché, contemporaneamente, si richiedono a gran voce servizi sempre migliori (pensiamo agli ambiti della sanità, dell’istruzione, dei servizi alle imprese).
L’acuirsi della crisi ha accentuato queste contraddizioni.
La nostra azione negli ultimi anni si è quindi incentrata in una forte, costante pressione per superare questa mentalità e ridare alla PA il riconoscimento che merita.
Non si è trattato di un impegno semplice anche perché in taluni momenti è apparso emergere un tentativo di delegittimazione del ruolo contrattuale del sindacato, estromesso da decisioni che la politica ha inteso assumere unilateralmente anche su materie tipicamente contrattuali; ricordo il taglio degli stipendi nel 2014, i prepensionamenti coatti che hanno prodotto due gravi conseguenze negative:
un improvviso impoverimento di risorse umane in molti servizi che si sono trovati di colpo privati di figure essenziali ed una ricaduta negativa sul fondo pensioni già appesantito dall’utilizzo dello stesso quale ammortizzatore sociale nel settore privato.
Meglio sarebbe stato, come da noi suggerito, individuare eventuali esuberi ed incentivarne l’esodo, ma la politica, a volte, segue logiche non sempre razionali.
Se lo scopo di queste azioni era quello di ridimensionare il ruolo del sindacato, l’obiettivo è apparso subito controproducente perché, come ovvio, di fronte all’indebolimento delle organizzazioni che portano avanti gli interessi dei lavoratori in maniera unitaria e coordinata, dopo aver operato le necessarie mediazioni fra esigenze a volte contrapposte, la controparte ha dovuto fare i conti con iniziative e pressioni particolari difficilmente gestibili.
Nonostante queste difficoltà il lavoro tenace, quotidiano, fatto più di apporto di idee e proposte piuttosto che di contrapposizioni, sbandierate tanto per garantirsi l’effimera notorietà di un giorno sulla stampa locale, ha prodotto importanti risultati.
Sono stati definiti i profili di ruolo ed è stato contestualmente superato il dualismo contrattuale fra organico e contratto privatistico ed è stato stabilito, finalmente dopo 23 anni, il nuovo fabbisogno del settore pubblico allargato pensato in prospettiva di un ammodernamento ed una migliore qualità dei servizi pubblici.
Contemporaneamente si è affrontato il grave tema del precariato. Lo stato di abbandono in cui è stata lasciata la PA negli ultimi lustri, come ricordavo sopra, ha determinato questo grave fenomeno che non ha riguardato solo i nuovi ingressi nella PA dall’esterno, ma ha coinvolto in maniera massiccia anche i dipendenti già in servizio (il cosiddetto precariato interno). Non sarebbe stato possibile applicare il nuovo fabbisogno senza affrontare questo aspetto, per cui si è giunti ad un accordo sulla stabilizzazione del personale precario.
L’obiettivo è stato quindi raggiunto ?
I risultati ottenuti sono certamente importanti e, in certi momenti, durante la trattativa, erano sembrati impossibili da raggiungere, tuttavia mancano all’appello alcune situazioni specifiche su cui sono mancate delle scelte politiche e che, con la chiusura anticipata della legislazione, sono rimaste in sospeso.
Manca poi la parte applicativa di diversi provvedimenti che, già dalle prossime settimana dovrà essere avviata.
C’è quindi ancora molto lavoro da portare avanti e sarà necessaria una vigilanza costante affinché il percorso avviato non si interrompa e ci sono ancora aspetti e normative da rivedere in modo che, finalmente, il settore pubblico sia riportato alla normalità sulla base di regole e meccanismi certi, sottratti agli ambiti di discrezionalità sempre in agguato.
Una volta conclusa questa fase, penso che si potrà ritenere di aver dato un contributo significativo per il Paese; a mio avviso, infatti, la riforma della PA e la riforma dell’IGR rappresentano le due riforme più importanti degli ultimi anni in quanto si tratta di riforme strutturali che, se ben attuate, potranno portare beneficio al Paese e possiamo dire che, per entrambe, l’apporto del sindacato è risultato significativo.
Nel protocollo firmato con il Governo, a conclusione dell’iter normativo di riforma, si sarebbe dovuto procedere anche al rinnovo del contratto dei pubblici dipendenti scaduto dal 2012, fermo, per la parte retributiva dal 2010 e, per alcune voci, dal 2000. Tutti gli altri settori più importanti hanno rinnovato il contratto.
Con il Governo si era raggiunta un’intesa di massima che, seppure prevedesse un risultato poco più che simbolico, aveva lo scopo di mandare un segnale di speranza nella fine del lungo periodo di crisi e di avvio della ripresa per aiutare l’emergere di un atteggiamento di fiducia nel futuro, la mancanza del quale determina quella propensione al rinvio degli acquisti alla base della recessione interna.
Anche questo obiettivo è rimasto sospeso ad un passo dalla realizzazione a causa della fine anticipata della legislatura.
Tutto questo riguarda l’oggi, ma occorre guardare oltre il presente ed immaginare un ruolo per la PA rivolto al futuro, tenendo conto del contesto generale di cui parlavo all’inizio, e tenendo anche conto della situazione del mondo del lavoro che ha visto di recente una lieve ripresa, ma non sufficiente a dare risposte alla disoccupazione che rischia di diventare endemica.
Avere ricoperto questo ruolo negli ultimi 4 ,5 anni mi ha permesso di farmi un’idea generale della PA vista da un osservatorio privilegiato che mi ha dato modo di esaminare tutti i settori e di scoprire tante dinamiche differenti. Ciò che mi è sembrato evidente è la mancanza, a tutti i livelli, di un progetto, di un’idea di pubblica amministrazione adeguata alla specificità del nostro Paese che, essendo un mi-crostato, ha caratteristiche proprie difficilmente riferibili ad altre realtà.
Stiamo infatti assistendo al proliferare di iniziative che in ultima analisi dipendono sempre dallo Stato, ma che sono gestite al di fuori di un contesto, secondo l’idea che ciò che suona come “autonomo” o “privatistico” sia comunque migliore, più efficiente e più economico a prescindere.
Mi riferisco, in particolare, al fenomeno delle esternalizzazioni dei servizi pubblici ed al fenomeno delle società a partecipazione, totale o parziale, dello Stato.
Mi rendo conto, dicendo questo di poter apparire come un incallito statalista, ma non è così e per farmi capire meglio vi racconto un aneddoto.
Anni fa, quando ero giovane, ho partecipato ad una conferenza in cui era ospite un importante docente di diritto; mi perdonerete se non ricordo il nome ma sono passati molti anni. Il tema era proprio il ruolo dello Stato e del privato ed il relatore appariva più propenso a sostenere un ruolo “leggero” e limitato dello Stato. Al termine qualcuno fece una domanda relativa alla nostra realtà in cui invece lo Stato si occupa quasi di tutto (come si dice sempre gestisce anche le sale cinematografiche). La risposta fu sorprendente. Il relatore, dimostrandosi all’altezza della sua fama e non persona che parla per slogan disse più o meno questo: “si, ma la vostra situazione è diversa perché qui lo Stato coincide con la Comunità”.
Poi ci sono stati altri avvenimenti che mi hanno fatto riflettere su questo rapporto Stato Società; ricordo gli avvenimenti polacchi legati al sindacato Solidanosc che mise in evidenza la distanza fra lo Stato polacco allora filo-sovietico e la società rappresentata in quella circostanza dal sindacato libero.
Forse quel conferenziere aveva una visione un po’ idilliaca della nostra realtà, ma in quella occasione ha permesso, a noi, di capire un po’ meglio noi stessi. In generale tutta la nostra storia è la storia di una piccola comunità che si auto-organizza dandosi una forma di Stato al fine di preservare la propria autonomia.
Dunque auspico che questo sforzo di elaborazione di un progetto originale, complessivo e organico possa essere realizzato. È stato fatto in passato quando fu varata la legge organica nel 1972 ed ancora quando fu riformata la PA nei primi anni 80. Quindi si può fare e in questo non mancherà, come avvenuto in passato, l’apporto del sindacato.
Se poi sarà necessario inserire alcune esternalizzazioni o ambiti a gestione societaria andrà valutato, purché ciò rientri in un disegno chiaro, trasparente e leggibile, al contrario di ora dove questi elementi sono stati inseriti in maniera strisciante, settoriale ed estemporanea. Si ha l’impressione che chi può, cerchi di costruirsi un proprio ambito non soggetto alle regole del pubblico, regole che vengono viste come un inutile freno rispetto all’efficienza tecnocratica.
Dobbiamo evitare anche noi di ragionare per slogan o per imitazione di situazioni esterne (tra l’altro se guardiamo il panorama italiano le società partecipate non costituiscono certo il miglior esempio da imitare).
Spesso si accusa la PA di eccesso di regole, di burocrazia che frena l’azione, attribuendo ciò il più delle volte ai dipendenti (vengono infatti chiamati burocrati!) dimenticando che i dipendenti applicano le norme e le norme non le fanno i dipendenti, le fanno i politici.
Certo c’è un eccesso di produzione normativa qualche volta fatta male, qualche volta contraddittoria, ma le regole sono comunque necessarie quando si gestisce la cosa pubblica. Anche il privato ha le sue regole: il profitto e la concorrenza; che, però, non valgono quando il capitale è pubblico, infatti il profitto non è lo scopo principale del pubblico e quasi sempre queste entità agiscono in regime di monopolio cioè senza concorrenza, così non hanno né le regole del mercato, né quelle del pubblico.
Non possiamo pensare di affrontare le sfide che la complessità del mondo ci presenta come descrivevo sinteticamente all’inizio con una macchina pubblica che non ha un disegno leggibile, retta da un coacervo di leggi, decreti, delibere, accordi ormai inestricabile e contraddittori.
Altro tema è quello della maggior qualificazione di cui la PA necessita, come del resto tutto il mondo del lavoro.
Pensiamo solo all’impatto che avrà l’accordo di associazione con l’Europa se andrà avanti. Siamo sicuri di reggere l’impatto delle normative che dovremo recepire e soprattutto abbiamo le competenze necessarie o dovremo affidarci soltanto ai consulenti esterni?
Su questo occorre rivalutare il ruolo di scuola, università e formazione professionale che vanno visti non come servizi a se stanti, ma in sinergia col mondo del lavoro, cioè con l’impresa, il sindacale e anche il pubblico, in modo da costruire quelle politiche attive del lavoro che possano rispondere alle ripercussioni derivanti dall’applicazione delle nuove tecnologie in tutti gli ambiti e ad una delle maggiori emergenze del momento che è la disoccupazione giovanile.
Fino a poco tempo fa non c’era bisogno di questo perché il lavoro non mancava, quindi non abbiamo avuto modo di costruire una tradizione che ora va realizzata, e le risorse per farlo ci sono. Va costruita una nuova cultura che non riguarda solo il pubblico, ma tutti gli attori pubblici e privati che ruotano attorno al mondo del lavoro.
Un accenno anche vorrei farlo ad una questione che è rimasta in questi anni in ombra e su cui, mi sembra, andrebbe invece riportata l’attenzione: la questione della dirigenza nel settore pubblico.
Di fatto si è affermata una prassi, poi codificata anche nella legge, che prevede che i dirigenti pubblici siano dei precari, magari di lusso ma precari.
Per le nomine vige la totale discrezionalità del Congresso di Stato, infatti possono essere assunti per chiamata diretta, per selezione, per concorso o per contratto, ma di fatto sempre a tempo determinato (di solito 3 anni prorogabili), per cui non si comprende il criterio in base al quale si usa una forma o l’altra di assunzione, tranne per il contratto che permette di fissare retribuzioni al di fuori di quelle tabellari e quindi anch’esse discrezionali.
Per inciso, le norme sulla dirigenza nonché le tabelle retributive sono state decise senza alcuna contrattazione sindacale, come se i dirigenti non fossero anch’essi dei dipendenti e non avessero diritto ad una tutela sindacale.
Quanto questa totale discrezionalità nella gestione dei dirigenti sia compatibile con la sbandierata autonomia della PA è facile immaginarlo.
Anche su questo tema andrebbe fatta una seria riflessione per ricercare soluzioni adatte alla nostra realtà e non mutuate da situazioni molto distanti dalla nostra, dove il mercato del lavoro è molto più dinamico del nostro.
Infine una parola sul sindacato.
Non c’è dubbio che anche il modo di fare sindacato non potrà rimanere quello del passato. Anche su questo si impone in tempi brevi una seria riflessione che riguarda tutti i lavoratori e non solo gli addetti ai lavori.
La recente legge sulla rappresentatività può rendere più agevole questo passaggio e, avendo fissato regole certe per tutti, potrà rendere più facile il dialogo fra le diverse organizzazioni senza pretendere che nessuno rinneghi la propria identità.
D’altra parte con la FUPI c’è da decenni un rapporto unitario all’interno della CSU, ma occorre notare che nel Pubblico Impiego tutti gli accordi portati avanti in questi anni con il Governo o con l’Amministrazione sono stati firmati da tutte le sigle sindacali.
A questo punto direi che mi resta solo di ringraziare tutti Voi per l’opportunità che mi è stata data di fare questa esperienza alla segreteria della Federazione, per me molto significativa come dicevo poc’anzi e ringrazio soprattutto le persone che hanno condiviso con me questo percorso: Morena e Sandro in particolare, con i quali è nato un rapporto di amicizia e coi quali si è realizzata una perfetta sinergia.
Ringrazio anche i Colleghi della Fupi, in particolare Alessio ed Antonio, con cui abbiamo lavorato quotidianamente gomito a gomito e ringrazio coloro coi quali ci siamo trovati spesso seduti ad uno stesso tavolo, quindi in particolare, Giorgia Giacomini della USL, il principale referente del Governo per quanto riguarda la PA cioè il Segretario degli Affari Interni Gian Carlo Venturini ed i Dirigenti dell’Ammi-nistrazione, con i quali, pur nei reciproci ruoli e a volte anche con momenti di contrapposizione, si è comunque lavorato per costruire, di volta in volta, le migliori soluzioni ai tanti problemi affrontati.