Quale ordine nel Maditterraneo?
Inutile nascondersi dietro un dito: se la Libia non fosse stata travolta dal cosiddetto “’89 arabo” per l’Italia sarebbe stato di gran lunga meglio. Nonostante alcuni atteggiamenti irrispettosi dell’etichetta diplomatica tenuti dal rais durante la sua ultima visita a Roma, che i nostri rappresentanti non avrebbero dovuto ammettere (vedi la lezione di Corano e la foto di Omar al Mukhtar sulla divisa di Gheddafi), va constatato che l’Italia stava godendo i frutti della distensione con la sua ex “quarta sponda”. Gli sbarchi di clandestini sulle coste della Penisola erano diminuiti del 99%, le nostre società giocavano un ruolo centrale nell’economia libica e il rapporto preferenziale nel settore energetico contribuiva ad alleviare i problemi di un Paese che è ideologicamente contrario al nucleare, è paralizzato dai movimenti nimby nell’utilizzo delle sue ridotte, ma esistenti, risorse energetiche, e tratta le fonti alternative solo ad uso speculatorio (salvo poi smantellarne le attrezzature qualora non risultino gradite dai movimenti per la salvaguardia del paesaggio). Non esistendo un ordine politico universalmente giusto, la stabilità nel Mediterraneo per l’Italia passava inequivocabilmente per la preservazione dello status quo e la difesa delle sue posizioni acquisite. Ma ormai è necessario ragionare su di uno scenario “rivoluzionario”.
I fattori che l’hanno determinato sono principalmente quattro. Il primo è l’eccessivo tentennare della nostra diplomazia di fronte ad un contesto che dovrebbe essere considerato nevralgico per ragioni di ordine storico, politico, economico, nonché per il prestigio internazionale stesso del Paese. Rispetto al quale, dunque, la strategia avrebbe dovuto essere prestabilita e condivisa a monte, risultando al massimo oggetto di dibattito per attori politici interni di modeste dimensioni e che, per ragioni tattiche di sopravvivenza, cercano di polarizzare l’opinione pubblica. La delicata posizione in cui si trova attualmente il presidente del Consiglio non ha aiutato il governo ad assumere una posizione netta, soprattutto nell’ambito di un contesto “domestico” in cui il concetto di “interesse nazionale” rappresenta una prerogativa di pochi e la politica estera rischia sempre di essere utilizzata dai partiti ad uso e consumo interno.
Il secondo fattore è la totale incapacità del regime libico di parlare con lo stesso registro dialettico degli altri protagonisti dello scacchiere internazionale, tanto che la minaccia o l’uso della violenza vengono quasi sempre chiamate in causa quando c’è Gheddafi di mezzo. Si tratta di una situazione che sembra segnalare una vera e propria volontà di Tripoli ad incarnare l’idealtipo del rogue State (o più, semplicemente, a ritornare a quella tradizione piratesca venuta meno solo nel 1835), forse funzionale al tentativo di porsi alla guida della “rivolta contro l’Occidente”. Un simile comportamento ricattatorio, tuttavia, può funzionare solo quando l’attenzione degli Stati occidentali è massimamente concentrata su altri quadranti, ma che è diventata rischiosa in un momento in cui la situazione in Iraq sta migliorando e i numeri umani ed economici necessari in Afghanistan sembrano essere stabilizzati.
Il terzo fattore è costituito dalla decisione francese di porsi alla testa dell’iniziativa internazionale. In molti hanno sottolineato il significato interno dell’operazione, che risulta senz’altro importante. In vista delle presidenziali previste per il 2012 Nicolas Sarkozy ha bisogno di rispolverare la sua immagine internazionale, fondamentale in un Paese dove l’aspirazione alla grandeur non si è mai realmente sopita, soprattutto al cospetto di un avversario come Dominique Staruss-Kahn che, grazie al suo ruolo di direttore generale del Fmi, gode di un prestigio consolidato. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, il significato esterno di questa scelta. In un momento in cui l’attenzione degli Stati Uniti sembra concentrarsi sugli Oceani, il Mediterraneo costituisce un quadrante comunque fondamentale per la politica internazionale dove si possono aprire nuovi spazi per un’aspirante potenza regionale. Un ruolo che, tradizionalmente, viene assunto solo da chi ha il controllo delle vie marittime e si dimostra in grado di saper garantire l’ordine. E che potrebbe essere incentivato anche dalla possibilità di rimettere in discussione gli attuali rapporti di potere nel ricchissimo settore energetico libico.
Il quarto ed ultimo fattore è l’immagine del governo americano. Il sogno di libertà ed emancipazione che il presidente Obama ha voluto incarnare, d’altronde, era difficilmente coniugabile con una politica “realista”. Ricorrendo ad altri toni ed offrendo qualche attenzione in più al multilateralismo, doveva necessariamente rimanere sulla scia “idealista” di Bush e dei neoconservatori. La volontà di far emergere un “nuovo ordine” rivoluzionando lo status quo, che già aveva caratterizzato la politica estera americana degli anni Novanta e Duemila, si scontrava, da un lato con il timore di una situazione di overstretching tipicamente foriera di crisi per le superpotenze, e dall’altro dall’assenza di una fonte di legittimazione che permettesse di infrangere per l’ennesima volta il principio della non ingerenza. Il recupero dell’idea di “ingerenza umanitaria”, già formulato dall’amministrazione Clinton ai tempi della guerra in Kossovo, è venuto in soccorso alle contraddizioni che rischiavano di affossare quello yes, we can che aveva sostenuto il cambio di colore politico alla Casa Bianca. Questo, insieme alla disponibilità a sostenere a vario titolo l’intervento manifestata da Gran Bretagna, Francia, Italia, Canada, Danimarca e Spagna, ha fatto rompere gli indugi a Washington.
Al cospetto di questi fattori qual potrebbe essere la migliore delle evoluzioni possibili per l’Italia? Naturalmente va allontanata la prospettiva di una guerra civile prolungata, che potrebbe portare alla nascita di un failed State alle nostre porte, con tutti i rischi del caso (esodi apocalittici di profughi, emergenze sanitarie e terrorismo). Una variante meno estrema di questo scenario è la configurazione di un failing State, che presupporrebbe la disponibilità ad un impiego di forze prolungato da parte dei Paesi direttamente investiti dal deterioramento della situazione. Italia, ovviamente, in testa.
Altre due ipotesi restano ugualmente in piedi. La prima è quella che vede Gheddafi rimanere in sella. Non costituisce una situazione ideale in quanto l’inaffidabilità del rais e la sua voglia di vendetta per un presunto “tradimento” italiano potrebbero prendere forme imprevedibili e coinvolgere dimensioni eterogenee. Questa situazione, peraltro, non scongiurerebbe il verificarsi di quei rischi collegati al primo scenario. La seconda è quella di una vittoria dei ribelli, cui potrebbero risultare associate una serie di variabili ad ogni modo preoccupanti. Anzitutto una voglia di vendetta dei vincitori uguale e contraria a quella dei fedelissimi del regime (il Kossovo ha costituito una valida prova di questa possibilità). Secondo poi l’emergere al loro interno di una “minoranza organizzata” di islamisti, fisiologicamente foriera di posizioni anti-occidentali. Infine un inevitabile indebolimento della posizione italiana, in quanto il nuovo regime riporterebbe a zero tutti gli impegni presi da quello precedente, senza contare che non è affatto certa la sua capacità di garantire la sicurezza dei nostri interessi.
Una terza ipotesi potrebbe essere la divisione della Libia in due Stati, la Tripolitania e la Cirenaica, con il Fezzan diviso ed associato ad essi. Si tratta di una prospettiva che potrebbe salvaguardare il Paese dal regolamento dei conti e dal vortice di vendette che, in ogni caso, seguirebbe alla vittoria complessiva di una delle due parti in causa. È necessario ricordare, infatti, come la crisi libica non possa essere spiegata secondo i paradigmi della “rivolta del pane”, che non mancava nell’ex colonia italiana, ma come uno scontro tribale covato per anni sotto le ceneri e che aspettava di essere detonato nell’ambito di un processo di mutamento internazionale più ampio e in grado di attirare l’attenzione delle grandi potenze. La divisione della Libia, qualora nessuno dei due neo-Stati fosse abbandonato al proprio destino, potrebbe contribuire a smussare le aspirazioni egemoniche sull’Africa settentrionale e centrale e, quindi, la portata conflittuale della politica espressa in passato da Tripoli. Un’evoluzione simile garantirebbe di sicuro un ordine maggiore, ma non necessariamente funzionale a Roma, salvo il fatto che servirebbe a scongiurare la crisi umanitaria e il pericolo di attentati.
Per far volgere a nostro favore questa prospettiva vi dovrebbe essere associata un’azione a tutto campo da parte della nostra diplomazia. La Farnesina dovrebbe essere in grado di dimostrare ai ribelli, che prenderebbero il potere a Bengasi, il ruolo determinante svolto dall’Italia per scongiurare la loro sconfitta e gli interessi che, nonostante il ritrovato ascendente di Stati Uniti e Francia, legano le due sponde del Mediterraneo. Allo stesso modo l’Italia dovrebbe impegnarsi per non far chiudere l’esperienza politica di Gheddafi in un bagno di sangue, facendo ottenere all’ex colonnello, divenuto politicamente impresentabile, un salvacondotto che lo faccia continuare a vivere in esilio. La figura di un “combattente martire”, d’altronde, potrebbe alimentare la possibilità di una resistenza sul modello iracheno. Per evitare tale situazione, inoltre, bisognerebbe far tesoro degli errori compiuti nell’abbattimento del regime di Saddam Hussein. L’impianto del sistema di potere di Gheddafi non dovrebbe essere smantellato come in Iraq seguendo la logica del “tutti – armati – a casa”. Al contrario un futuribile Stato della Tripolitania dovrebbe assistere al pacifico allontanamento solo dei personaggi più compromessi della Jamāhīriyya, preservando un ruolo per tutti gli altri, soprattutto per quelli dell’apparato militare. In questa prospettiva non costituirebbe un controsenso se Roma sostenesse, almeno nel breve termine, un passaggio di consegne ad uno dei figli del rais. Quest’ultima figura potrebbe risultare maggiormente grato di altri all’Italia per aver fatto il possibile per salvare il salvabile ed, è lecito sperare, che non si comporterebbe altrettanto incautamente quanto il padre di fronte nuove crisi internazionali.
Di Gabriele Natalizia (geopolitica.info)