La crisi e la governance globale
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) non usa mezze misure per definire le attuali turbolenze economiche mondiali: quella che il mondo sta sperimentando è la peggior crisi economica dal 1945 ad oggi. Mai dalla seconda metà del ‘900 in poi l’economia mondiale era cresciuta a ritmi così blandi (nel corso del 2009 è previsto un tasso di crescita dello 0,5%). Mai negli ultimi 25 anni il tasso di crescita era sceso sotto il 2%. I paesi emergenti e quelli in via di transizione, all’inizio solo scalfiti dalla crisi, ora registrano una brusca frenata allo sviluppo economico mentre i paesi sottosviluppati rischiano non solo l’inizio di una fase recessiva ma temono addirittura possibili disordini sociali. Molti esperti paventavano la diffusione a livello planetario della crisi finanziaria, prevedendo tra l’altro il contagio dell’economia reale. Questa analisi sembra confermata dalle proiezioni economiche degli ultimi mesi valide per il prossimo biennio. Insomma, abbiamo di fronte un periodo di difficoltà economiche estremamente acute, caratterizzate da un alto grado di incertezza sia riguardo alle prospettive di breve-medio termine sia per quanto concerne le strategie di politica economica da adottare in seno ai singoli stati.
Tuttavia, di fronte ad una recessione globale, almeno un lato positivo emerge: la crisi potrebbe rappresentare il giusto acceleratore al processo di riassetto del sistema di governo mondiale, vale a dire la messa in opera di una nuova architettura internazionale incentrata sul criterio di rappresentatività. L’attuale assetto della comunità internazionale, infatti, non rispecchia gli equilibri di forza che sono venuti a crearsi nel corso degli ultimi anni. Il Brasile, l’India, il Sudafrica, in parte la Cina, sono sottorappresentati all’interno di alcuni tra gli organi multilaterali di maggiore importanza politica, quali il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il G8, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. In altri termini, l’odierno sistema di global governance manca di effettiva rappresentatività.
Il peso specifico della demografia, il robusto sviluppo economico ed il relativo declino delle medie potenze europee (Germania, Regno Unito, Francia, Italia) sono le carte su cui possono ( e non mancheranno di) contare i nuovi attori della politica internazionale. Già oggi, non è proponibile pensare di risolvere le principali sfide globali senza consultare le potenze emergenti. Come trovare una soluzione alla questione palestinese senza coinvolgere l’Iran? Come è possibile immaginare un nuovo accordo sul cambiamento climatico sprovvisto delle firme di Nuova Delhi e Pechino? Come si potrebbe concepire un maggior sviluppo economico dell’America Latina escludendo dai giochi il Brasile? Ecco che la ricerca del consenso globale diventa un imperativo. Ma per ottenerlo diventa necessario ripensare l’attuale configurazione delle relazioni internazionali.
La gravità della crisi odierna ha già condotto le prime venti economie del mondo a collaborare in maniera più stringente sotto l’aspetto economico, promuovendo il coordinamento delle misure di politica monetaria. In più, i centri decisori del potere politico mondiale stanno riflettendo sulla creazione di un “nuovo capitalismo”, attraverso la revisione dei meccanismi concepiti a Bretton Woods (Gordon Brown), l’istituzione ex novo di un’agenzia multilaterale preposta alla regolazione della finanza globale (Angela Merkel), l’attuazione di un legal standard valevole per le transazioni finanziarie transazionali (Giulio Tremonti). Da Vladimir Putin a Wen Jiabao, da Nicolas Sarkozy a Felipe Calderon la ricerca di collaborazione interstatale assume una dimensione internazionale. Questo spirito di mutua assistenza è da accogliere senz’altro positivamente. Tuttavia, appare una volontà di natura essenzialmente economica. Piuttosto, una strategia di revisione dell’assetto costituito all’indomani della Seconda guerra mondiale dovrebbe muoversi attraverso due binari paralleli: il binario economico e quello politico.
Qualora la strategia si fermasse al solo piano economico, vi sarebbe il rischio di una cooperazione viziata dalla necessità del momento, cioè guidata prettamente dall’interesse nazionale. Le iniziative di cooperazione economica potrebbero guardare solamente al breve periodo: per uscire dalla crisi è indispensabile un’azione concertata, quindi una cooperazione forzosa. Ma una volta usciti dal buio della recessione, gli stati potrebbero rifiutare una visione di lungo periodo e ritornare allo status quo, rinnegando così una collaborazione a tutto campo.
Per questo motivo al binario economico dovrebbe seguire, di pari passo, il binario politico. Agli impegni collaborativi di natura economica è necessario affiancare una volontà politica riformatrice. Una vera svolta nella governance mondiale si avrebbe solo con la riforma del Consiglio di Sicurezza, luogo simbolo del potere politico mondiale. Solo quando il Consiglio diverrà rappresentativo delle nuove realtà geopolitiche globali si potrà parlare di un nuovo, effettivo modello di governance mondiale.
In questo senso non si può che accogliere favorevolmente la riunione informale organizzata dalla diplomazia italiana il 5 Febbraio scorso concernente la riforma del Consiglio di Sicurezza. All’iniziativa, tenutasi alla Farnesina, hanno partecipato 77 paesi rappresentativi delle diverse aree geografiche e delle varie categorie di membri delle Nazioni Unite. L’Italia, come è noto, fa parte del gruppo Uniting for Consensus, il quale fa leva sull’ampliamento del numero dei membri non permanenti del Consiglio, prevedendo una nuova categoria di stati membri (stati “semipermanenti”) caratterizzata dalla possibilità di rielezione immediata (oggi non praticabile). All’iniziativa fortemente appoggiata dal Belpaese si oppone il G4 – vale a dire il gruppo di stati capeggiato da Germania, Giappone, Brasile ed India – che immagina una revisione del Consiglio incentrata sull’allargamento dei seggi permanenti (con o senza diritto di veto, non è chiaro). Si tratta evidentemente di due visioni di riforma diametralmente opposte. E’ auspicabile, dunque, che il negoziato intergovernativo apertosi sul tema a New York il 19 febbraio scorso possa essere foriero di indicazioni concrete e non si esaurisca in un nulla di fatto, come già è successo nel precedente tentativo di concertazione avvenuto nel 2005.
La crisi offre un’ imperdibile opportunità di dialogo e mutua cooperazione. La condizione di precaria salute di cui gode l’economia mondiale continuerà almeno fino al 2010, sostengono gli economisti dell’FMI. Questo biennio si sofferenza economica può servire da leva propulsiva al fine di ottenere quella rappresentatività che fa difetto alla comunità internazionale contemporanea. Rinunciare ora ad un ripensamento a tutto tondo del sistema delle relazioni internazionali si rivelerebbe, ex post, una (rara) occasione perduta.
Di: Emanuele Schilotto (Geopolitica.info)