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Perché Bersani non può imitare Bossi

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Si moltiplicano le voci di chi suggerisce al Pd di diventare più simile alla Lega. Anche da parte di chi, come il direttore del Fatto Antonio Padellaro, rimprovera ogni giorno al Pd di essere troppo simile a Berlusconi.

Diventare come la Lega, si dice, per «stare tra la gente». Lodevole intento. Al quale però bisogna aggiungere che cosa si dice alla gente, una volta che si sta lì in mezzo. Per diventare come la Lega bisognerebbe infatti dire alla gente che le tasse devono rimanere dove si produce il reddito, che le regioni meridionali devono stringere la cinghia, che i professori di scuola devono essere scelti in loco e tra gli indigeni. Per diventare coma la Lega bisognerebbe dire che gli immigrati vanno respinti in mare, e che se riescono ad entrare si deve essere cattivissimi con loro, e nisba moschee. Per diventare come la Lega bisognerebbe aggiungere che l’Europa è un pericolo, che Schengen andrebbe sospesa, e non votare nuovi trattati internazionali che limitino la sovranità delle nostre frontiere. Bisognerebbe anche, così per dire, impegnarsi a far marcire nei sottoscala degli ospedali le pillole Ru486. Bisognerebbe infine essere alleati di Berlusconi, aspetto non secondario nel successo del Carroccio al Nord.

La nostra non è pura ritorsione polemica. È che se stai tra la gente, e non gli dici cose così, è difficile che la semplice frequentazione porti voti. E il Pd, cose così non le può neanche pensare. Diciamo quindi che il giochetto romano «fàmo come la Lega» è solo un espediente retorico per continuare a sparare sul Pd. Al quale si rimprovera di non prendere abbastanza voti proprio mentre si sostengono tutte le forze che gli tolgono voti, da Di Pietro fino a Grillo.

Ci sono però due aspetti del rapporto tra sinistra e Lega che meritano un’attenta riflessione. Il primo è il successo del partito «patronage» e dell’enfasi sul «local». È evidente in tutta Europa il vantaggio delle forze politiche che si esercitano soprattutto sulla protezione degli interessi locali, dei gruppi sociali e delle comunità territoriali in cui operano. Anche a scapito di una visione nazionale e in polemica con la dimensione globale. Nella storia della sinistra italiana, cioè del Pci, queste due caratteristiche c’erano, eccome. Nella testa di gran parte dei suoi elettori il Pci esisteva per difendere gli operai delle fabbriche, gli abitanti dei quartieri poveri, le comunità sconvolte nelle abitudini e nella cultura dalla modernizzazione portata dal capitalismo. «Cominciate dalla fontanella del rione», dicevano i segretari di sezione comunisti ai giovani studenti che si affacciavano alla militanza politica, per ripulirli delle loro deviazioni borghesi. Poi tutto questo è stato dichiarato vecchio, ma nuovissimo se lo fa la Lega.

Il secondo punto riguarda la riforma dello Stato. Ora che la Lega, per bocca di Maroni, si è esplicitamente candidata a partito-guida della trasformazione istituzionale del Paese, e ora che ha esplicitamente chiesto al Pd di dare una mano, Bersani e i suoi non possono più rifiutarsi di rispondere con la scusa che tanto è una finta, che aspettiamo di vedere le proposte, che l’unico tavolo è il parlamento. Dovrà dire, prima o poi, un sì o un no, perché ho la sensazione che stavolta si faccia sul serio.

Per diventare come la Lega, in questa materia, bisogna essere a quanto sembra federalisti e semipresidenzialisti. Federalisti è facile. Da anni il Pd si professa tale, ed ha anche votato per il federalismo fiscale, che Dio ce la mandi buona. Ma, in fin dei conti, anche essere semipresidenzialisti non sarebbe impossibile. Il primo Ulivo è nato semipresidenzialista alla francese, forma di governo che d’altra parte fu votata dalla Bicamerale presieduta da D’Alema, e che tuttora piace a una larga componente – diciamo quella a vocazione maggioritaria – di quel partito.

Ci sono però due problemi. Il primo: il semipresidenzialismo esiste in Europa solo nel Paese più centralista che ci sia, la Francia «una e indivisibile» della Rivoluzione, l’«Hexagone» che il federalismo non sa nemmeno dove sta di casa e nel quale per le Regioni vota meno della metà degli elettori, a dimostrazione del conto in cui le tengono. Il secondo problema: l’unico semipresidenzialismo conosciuto presuppone un sistema elettorale in cui gli elettori scelgono i parlamentari col collegio, il doppio turno e il ballottaggio. Immaginare un semipresidenzialismo con l’attuale parlamento finto, nominato dai due candidati leader, e poi servo di quello che vince, è ovviamente impossibile restando nell’ambito della democrazia. Perché una democrazia può sopportare qualsiasi forma di governo, dal premierato al presidenzialismo, ma non può esistere senza un parlamento degno di questo nome. Ridurre della metà il numero dei parlamentari è dunque sacrosanto, ma raddoppiarne libertà e dignità non lo è da meno.
Il guaio è che questa legge elettorale, che come abbiamo visto è incompatibile con il semipresidenzialismo, è stata scritta da Calderoli, e cioè lo stesso ministro che ora la Lega incaricherebbe di scrivere il semipresidenzialismo. C’è dunque solo un modo di scendere a patti: proporre uno scambio tra la forma di governo e la legge elettorale. Ma questo presupporrebbe che la Lega e Berlusconi accettino di cambiare un sistema elettorale che li avvantaggia. Molto difficile.

A meno che diventare come la Lega non sia uno slogan per proporre dell’altro: e cioè di scegliere Giulio Tremonti come cavallo di Troia all’interno del berlusconismo invece che Gianfranco Fini come si è fatto in questi due anni. Perché la Lega a quello punta: mandare Berlusconi al Quirinale e portare super-Giulio a Palazzo Chigi. Se il Pd ha deciso di partecipare alla partita interna per la successione nel centrodestra – cosa che secondo me dovrebbe fare, sulla base delle sue convinzioni e con il peso della sua forza parlamentare che è ancora notevole – potrebbe essere un’idea, e allora si capirebbe in che senso bisogna «diventare come la Lega». Basta dirlo.

Di Antonio Polito direttore il Riformista

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