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Pensare l’economia in tempo di crisi.

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Di: Mattia Diletti e Andrea Gavosto

A cavallo degli anni ’70 i think tank furono uno degli agenti del cambiamento della cultura economica americana e mondiale; di lì a breve la loro attività avrebbe avuto un notevole impatto anche all’interno delle amministrazioni e dei governi. Se il motore teorico era la scuola di Chicago, centri come l’American Enterprise Institute e la Heritage Foundation negli Stati Uniti, o l’Institute of Economic Affairs e il Centre for Policy Studies in Gran Bretagna aiutarono a incubare e promuovere nuove idee di policy, volte al ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia.

Il paese più keynesiano del mondo
Oggi, con la crisi, il ciclo sembra essersi invertito: Martin Wolf del Financial Times ha definito gli Usa il paese “più keynesiano del mondo” (ma forse lo scettro spetterebbe alla Cina). È quindi naturale chiedersi in che misura i think tank abbiano contribuito a questa svolta (basti l’esempio del travaso di esperti tra Brookings Institution e amministrazione americana che sta avvenendo proprio in questi mesi). Cosa sta effettivamente accadendo nei centri di riflessione economica, nelle università, nei pensatoi delle istituzioni pubbliche, nella grandi banche d’investimento, nelle istituzioni economiche internazionali? Si dibatte sul serio a proposito della “fine del capitalismo” e sulla forma – forse inedita – che prenderà l’economia internazionale nel futuro prossimo venturo?

Ancora no. La virulenza della crisi è tale da non permettere che l’attenzione si distolga dall’obiettivo principale, la scelta degli strumenti più adatti a fermare la Grande Recessione. La priorità è salvare la vita del paziente; più in là si rifletterà su come prevenire il male. Di conseguenza, sono ritornati in auge i centri studi delle istituzioni: organismi multinazionali (Fondo monetario internazionale, Banca dei regolamenti internazionali, Ocse), banche centrali, Ministeri delle finanze. Un’istituzione che appariva “affaticata” come l’Fmi si è affidata a due menti brillanti come quelle di Olivier Blanchard e Jose Viñals – rispettivamente Capo economista e Direttore del Dipartimento finanziario – ed esse hanno garantito un miglioramento nella qualità delle analisi e delle previsioni. Oggi, per capire dove stia andando l’economia mondiale, si tornano a leggere innanzitutto i documenti del Fondo Monetario, mentre sono meno presenti sulle scrivanie i report delle banche d’investimento (che devono occuparsi di ben altri problemi, a cominciare dalla loro sopravvivenza).

Sia nel caso dell’analisi macroeconomica che in quello della regolamentazione finanziaria, ci si affida in primo luogo a istituzioni pubbliche transnazionali, come il Financial Stability Board – quale emanazione del G20 – di Mario Draghi. Il ritorno dell’intervento pubblico dà nuova centralità ai “pensatoi” pubblici, quelli interni alle banche centrali e ai ministeri del tesoro, i quali si poggiano su di una solida fanteria di analisti economici che hanno il compito ingrato, ma fondamentale di dissodare il terreno: servono da guida nella comprensione dell’economia reale; permettono di maneggiare dati relativamente attendibili; offrono strumenti che servono alla formulazione di proposte che non appaiano campate in aria.

Approcci non convenzionali
In cima servono pensatori brillanti, menti accademiche che siano possibilmente anche flessibili e pragmatiche (quelle in grado di pensare strumenti non convenzionali, per intenderci), che si devono poggiare sulle spalle di questo tipo di economisti. Il primo esempio riguarda ovviamente l’amministrazione americana, dove il motore dei primi interventi di emergenza fuori dagli schemi è stata proprio la mente accademica di Ben Bernanke; allo stesso modo all’interno dell’amministrazione Obama ha un ruolo di primissimo piano un’altra testa vivace ed eclettica come quella di Larry Summers. Le misure non convenzionali assunte in questo contesto di crisi mirano a un unico scopo, non ripetere la tragedia della Grande Depressione. Negli anni ’30 vennero compiuti irrimediabili errori nella politica monetaria, nella politica fiscale e in quella sociale che portarono a veri e propri drammi (a partire da una disoccupazione al 25%). Oggi questi errori non sono stati ripetuti: con ogni probabilità, però, ne sono stati commessi di nuovi, su cui gli economisti, soprattutto accademici, dovranno presto esercitare le loro capacità di diagnosi. Per il momento, i cultori della “scienza triste” stanno affilando le armi sui blog, a cominciare da quelli che ruotano intorno ai grandi giornali (FT, Wall Street Journal, New York Times), che rappresentano la nuova frontiera del dibattito accademico.

Il passo indietro dell’accademia (che forse lascia presagire una nuova ondata di elaborazione teorica) è del tutto naturale: tanto più acuta la crisi, tanto più necessaria un’adeguata pausa di riflessione per poter disegnare un percorso teorico plausibile, capace di generare una riarticolazione dei paradigmi economici. Andare al fondo delle ragioni della crisi richiede una struttura di ragionamento che sembra al momento assente: non appare all’orizzonte un nuovo Keynes in grado di produrre la reductio ad unum dei diversi aspetti del problema. Non basta l’intelligenza di alcuni analisti finanziari, capaci di spiegare e comprendere i meccanismi che hanno portato a far deflagrare questa immensa bolla speculativa, poiché la maggior parte di loro non era in grado di vedere l’impatto che essa avrebbe avuto sull’economia reale; gli economisti non hanno afferrato il pericolo generato dalla pervasività delle cartolarizzazioni dei derivati nelle attività bancarie (e ancora meno lo hanno compreso le colpevoli autorità di vigilanza). Allo stesso tempo in molti economisti è assente la capacità di afferrare il ruolo e i meccanismi di funzionamento della decisione politica, una qualità che oggi assume sempre più valore. L’eccesso di specializzazione fa sentire la mancanza di figure che sappiano sintetizzare queste tre caratteristiche: la comprensione dell’economia finanziaria, dei processi macroeconomici e di quelli che riguardano la decisione politica.

Mattia Diletti svolge attività di ricerca presso l’Università di Teramo e il GeopEC-Crs
Andrea Gavosto è Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli.

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