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Monti e la democrazia senza partiti

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NON HO mai pensato che il governo Monti fosse catalogabile come “governo tecnico”, senza altri aggettivi. È un governo “politico”. Non solo perché ogni governo è, naturalmente, politico. Tanto più se, come in questo caso, è chiamato a gestire la crisi economica più grave del dopoguerra e la crisi politica più seria dopo il 1992. Ma soprattutto perché le ragioni che hanno portato al governo Monti e i tecnici sono “politiche”. Legate alla fine di un ciclo durato quasi vent’anni: il Berlusconismo. Mario Monti, d’altronde, appare del tutto consapevole della propria “missione”. Gad Lerner, nei giorni scorsi, ha parlato, non a caso, di ideologia” politica. Anzi, “biopolitica”. E ha fatto riferimento, per questo, al “brutale disincanto” che connota la comunicazione di Monti. Alla cifra “liberal-liberista” della sua visione politica. Poi, a una certa insofferenza spressa dal governo (cosiddetto) tecnico verso le logiche della concertazione e della mediazione. Tutto ciò è sicuramente vero. Tuttavia, Monti interpreta, prima ancora, l’insofferenza dei cittadini verso i soggetti della rappresentanza. I partiti, ma anche i sindacati. Lo fa in modo esplicito e consapevole.

E lo dichiara apertamente. Come a Tokio, alcuni giorni fa, quando ha rammentato che nei sondaggi “il governo ha un alto consenso e i partiti no“. Un’affermazione difficile da contestare. Che può venire estesa anche ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali. In primo luogo Confindustria. Le proposte di riforma del mercato del lavoro e in particolare dell’articolo 18 hanno modificato questi orientamenti, riducendo il consenso verso il governo. Ma sicuramente non hanno alimentato la fiducia nei partiti e nei sindacati. Peraltro, secondo Ipsos di Pagnoncelli, l’azione del governo è tuttora valutata in modo positivo da oltre il 56% degli elettori. Una misura simile a quella rilevata dall’Ispo di Mannheimer: 54% (in risalita nell’ultima settimana). Un livello mai raggiunto dal governo Prodi dal 2006 al 2008, ma neppure dal governo Berlusconi negli anni successivi. Personalmente, inoltre, Mario Monti gode della fiducia del 60% dei cittadini. In altri termini: nonostante le scelte e le politiche del governo  –  ritenute poco eque, dal punto di vista sociale  –  abbiano suscitano l’insoddisfazione di ampi settori della popolazione, il sostegno verso Monti e il suo governo resta molto ampio. La maggioranza assoluta degli elettori si fida di lui assai più che degli altri leader politici. Del governo più che dei partiti e delle organizzazioni di categoria. Si fida, cioè, di figure non elette (anche se “votate” dal Parlamento) assai più che dei rappresentanti dei cittadini e degli interessi economici e sociali. Ciò solleva alcuni dubbi sulla legittimità della democrazia rappresentativa, in questa fase. D’altronde, mai come oggi sono apparsi tanto evidenti i limiti  della sovranità degli stati nazionali e delle istituzioni “democratiche” che li governano. Costretti ad adeguarsi ai vincoli imposti dai mercati e alle decisioni assunte dalle autorità sovranazionali. Politiche e istituzionali, ma soprattutto monetarie ed economiche. Mai come oggi gli “esperti” hanno assunto potere, a livello globale.

I partiti, d’altronde, risultano largamente “sfiduciati”, anche perché essi, per primi, non riescono ad  autoriformarsi. Ma appaiono, invece, ulteriormente usurati da scandali e casi di corruzione che si ripetono. Mentre faticano a frenare la deriva oligarchica che li affligge. Infine, il rito fondativo delle democrazie rappresentative, le elezioni, appare anch’esso discusso e criticato. Vista l’insofferenza generalizzata verso l’attuale sistema elettorale. Vista la difficoltà di approvarne un altro, diverso, che restituisca ai cittadini maggiore possibilità di scelta e di controllo. Sugli eletti e sulle loro iniziative. Il risultato è che la sfiducia oggi intacca la legittimità dei partiti in quanto tali. Tanto che la maggioranza assoluta degli italiani (intervistati in un sondaggio Demos, marzo 2012)  –  per la precisione, il 52%,  –  approva l’idea che “la democrazia può funzionare anche senza i partiti”. Cioè: 10 punti più di un anno e mezzo fa. Immaginare una democrazia senza partiti, però, significa mettere in dubbio l’utilità della democrazia rappresentativa, tout-court. D’altra parte, oltre il 60% dei cittadini, infatti, si dice favorevole a rinviare le elezioni del 2013, per far continuare Monti “fino a quando la crisi sarà risolta”. Cioè: a proseguire con un governo non eletto, senza andare al voto. Fino a data da destinarsi. In ciò mi pare consista il segno essenziale del Montismo. Che va oltre lo “stile di azione e di governo”. Al di là ell’ideologia delle politiche economiche e sociali intraprese. Il Montismo (come ho già scritto) mi sembra anzitutto una sorta di “aristocrazia democratica”. “Democratica”, perché dotata di consenso popolare e, comunque, sostenuta dal voto del Parlamento. Perché, inoltre, è temporanea e non ambisce a “riprodursi”, come ripete spesso il suo artefice.

Tuttavia, si tratta indubbiamente di Aristocrazia. Perché la legittimazione di Monti e dei suoi ministri dipende da ragioni esterne al Parlamento e alla politica. Deriva dalle loro competenze “personali”, adatte affrontare l’emergenza economica. Dalla credibilità loro riconosciuta presso le istituzioni economiche e monetarie internazionali. Presso gli altri governi. Deriva, al tempo stesso, dalla loro “diversità”  –  e alterità  –  rispetto ai partiti e ai politici “democraticamente” eletti. Per questo, quando sostiene che il “montismo non esiste” che, dopo le prossime elezioni, lui stesso sparirà, e torneranno governi “politici”, Monti è sincero. Ma non per questo afferma il vero. Perché il “montismo” va oltre la sua persona e il suo governo. Al di là e oltre le intenzioni di Monti, il Monti riflette un sentimento popolare, in parte, antipolitico. Sicuramente antipartitico. L’assicurazione del premier che l’anno prossimo al governo torneranno i “politici”, più che una promessa, a molti cittadini, appare una minaccia. Perché Monti e il Montismo, con le debite distanze e differenze, sono percepiti e concepiti da un’ampia parte degli elettori, come Tangentopoli vent’anni dopo. Cioè: uno strumento per “liberarsi” del sistema politico precedente. Allora: la Prima Repubblica. In questo caso: il Berlusconismo (e l’anti-Berlusconismo). Le logiche e gli attori che hanno guidato la Seconda Repubblica. Il Montismo, il “potere in mano ai tecnici”, senza la mediazione dei partiti e senza la legittimazione elettorale, riflette, quindi, il disagio dei cittadini verso la nostra democrazia rappresentativa. Indica una domanda  –  confusa  –  di cambiamento, largamente condivisa. “Liberarsi” di Monti: eleggere un nuovo Parlamento e un nuovo governo, con queste regole, questi partiti, questi leader politici. Non basterà a superare il Montismo. Ma rischia di alimentare quella stanchezza della democrazia che si respira nel Paese.

Di Ilvio Diamanti (Mappe-Repubblica)

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