MERCATO DEL LAVORO: IL FUTURO NON SI CHIAMA PRECA-RIETÀ MA INNOVAZIONE E RICERCA
E’ impossibile ragionare di mercato del lavoro senza tenere conto del ter-remoto economico finanziario che ha sconvolto i mercati di mezzo mondo. Alla luce di questi sconvolgimenti, si rafforza una sorta di pensiero unico che ha come concetto chiave: la competitività si raggiunge con flessibilità, licenziamenti facili, assunzioni precarie, bassi salari. Si sta insomma affer-mando il paradosso che l’iperliberismo, all’origine di questa devastante cri-si internazionale, diventi anche la ricetta per uscirne.
Per la Confederazione Democratica questa è la strada sbagliata, non si può scaricare sui lavoratori il costo di una crisi creata dall’avidità dei finanzieri e speculatori che hanno approfittato di una totale assenza di regole. Nello specifico del mercato del lavoro, è necessaria la messa a punto di un mix integrato tra istruzione, formazione e lavoro, sia per garantire efficienza e competitività al sistema produttivo, sia per assicurare sicurezza e stabilità e quindi coesione sociale.
Dal 2009 lo scenario occupazionale di San Marino è radicalmente cambiato. Il tasso di disoccupazione passa dal 3,1% del 2008 al 5,6% del settembre 2011. Dall’inizio della crisi le imprese che hanno chiuso sono state 900, nello stesso periodo sono stati persi quasi 700 posti di lavoro. Ma la crisi si è concentrata particolarmente sul settore industriale e quello delle costruzioni, in questi due comparti infatti sono venuti a meno oltre 1.000 posti di lavoro.
Questo scenario preoccupante ha provocato risposte emergenziali, come la frettolosa forzatura del decreto n° 130 denominato “Interventi urgenti per la semplificazione e l’efficienza del mercato del lavoro”. Le nuove norme introdotte rispondono in larga parte alla logica della deregolamentazione aumentando l’utilizzo di rapporti di lavoro atipici e precari, come distacchi e co.co.pro.; norme peraltro, nelle intenzioni del Governo, anticipatrici di una più organica riforma del mercato del lavoro.
Per la CDLS, invece, il decreto non può essere il battistrada della riforma del lavoro perché nel nostro mercato occupazionale i livelli di flessibilità non hanno confronti con i paesi europei: basti pensare che il solo utilizzo dei lavoratori frontalieri assicura alle imprese un potenziale 50% di assun-zioni a tempo determinato, e con il decreto lavoro la percentuale di rap-porti di lavoro precari può in via teorica raggiungere il 90%.
Il rischio è che, in nome della flessibilità, si destrutturi il mercato del lavoro con una diffusa precarizzazione senza regole e senza prospettive. Da un la-to, quindi, servono politiche e misure in grado di governare, limitare e con-tingentare i contratti flessibili, dall’altro lato il compito del sindacato è an-che quello di organizzare nuove forme di tutela per i lavoratori precari, in particolare per i co.co.pro. Per questo le Federazioni si devono attrezzare di nuove competenze e strumenti per assicurare diritti sindacali e sociali a coloro che non hanno nessun tipo di garanzia e tutela.
E’ dunque irrealistico prefigurare la riforma del mercato del lavoro tenendo come punto di partenza le ultime norme introdotte, ma deve essere l’occasione per realizzare vere politiche attive, facilitando e qualificando percorsi formativi anche attraverso un’agenzia del lavoro che implementi l’Ufficio statale e che sia organicamente in rete con le imprese, le associazioni sindacali e di categoria, la Camera di Commercio, il Centro di Formazione, l’Università e le Scuole Superiori.
Un percorso più realistico ed efficace è quello di stipulare un’alleanza fra imprese e sindacato sulla competitività, anche alla luce della grave crisi che rende difficile l’operatività delle aziende e che frena gli investimenti. In questo contesto il tema delle relazioni sindacali diventa assolutamente strategico per innovare la contrattazione e quindi favorire nuovi investi-menti e nuova occupazione.
Ripensare dunque il mercato del lavoro partendo dalla centralità del con-tratto, strumento che investe direttamente l’impresa e i lavoratori. Centra-lità da riempire di contenuti: produttività, flessibilità e salari innanzitutto.
La maggiore produttività del sistema impresa non è mai stato un tabù per il sindacato, tant’è che in molte occasioni lo scambio “più lavoro più stipen-dio “ ha trovato condivisione in molti accordi aziendali, strada che può es-sere imboccata con più decisione anche nella contrattazione collettiva. Lo strumento del salario di produttività, insieme a una maggiore partecipazio-ne dei lavoratori alle decisioni dell’impresa, può segnare un cambiamento nelle politiche contrattuali e rendere più efficiente e dinamico il mercato del lavoro.
Una vera riqualificazione del mercato del lavoro è poi strettamente con-nessa alla capacità del tessuto imprenditoriale di innovarsi e investire. Fon-damentale diventa per il settore commerciale e turistico dotarsi di una vi-sione strategica e progetti concreti in grado di attirare nuove risorse. Sul fronte industriale è invece urgente fare un salto di qualità sul valore ag-giunto dei prodotti: il costo del lavoro e la flessibilità non possono infatti essere le uniche discriminanti per rispondere alle sfide della competizione. Il nostro mercato del lavoro può avvalersi di un differenziale fiscale vantag-gioso e di ampie quote di lavoro flessibile; ora per crescere è imprescindibile qualificare gli investimenti in ricerca e innovazione.
Frontalieri, la crisi aumenta la precarietà fiscale
A San Marino il lavoro frontaliero sconta una sottovalutazione storico-culturale: è da sempre stato analizzato come una pura e semplice dinamica occupazionale, tutto rinchiuso nei confini della domanda-offerta di manodopera. Una lettura talmente riduttiva da provocare talvolta un cortocircuito tra le esigenze produttive delle aziende e le pretese elettorali-demagogiche interne, tese a ostacolare o frenare l’ingresso di lavoratori forensi.
In realtà, per dimensioni, durata e qualità, il fenomeno frontalierato ha contribuito a realizzare nelle fondamenta la moderna struttura economica e sociale della Repubblica. Le dimensioni del fenomeno sono del resto di tutto rispetto: il numero dei frontalieri occupati a San Marino si aggira in-torno alle seimila unità, cifra che rappresenta il 40% di tutti gli occupati del settore privato. L’intenso flusso occupazionale, proveniente in larga parte dall’Emilia Romagna e dalle Marche, ha qualificato le imprese industriali e di servizio sammarinesi, aiutando a sviluppare un vero e proprio distretto-economico sovranazionale. Ma il frontalierato si è anche profondamente intrecciato con i cambiamenti sociali e culturali della Repubblica. Non è certo un corpo estraneo, ma un ampio e radicato fenomeno di relazioni professionali e umane che, attraverso il valore lavoro, ha condiviso destini individuali e irrobustito storici legami di solidarietà tra comunità vicine.
Alla luce di tutto questo, appare non solo iniqua per i frontalieri ma anche penalizzante per l’intera economia dell’area San Marino, Rimini, Pesaro, l’introduzione nel 2003 della doppia imposizione fiscale ed il varo di una “nuova tassa” con la legge di bilancio del dicembre 2010.
Per risolvere questa annosa questione le organizzazioni sindacali, sia sam-marinesi che italiane, hanno da tempo indicato la via d’uscita: in base agli accordi internazionali è necessario che il trattamento fiscale dei frontalieri esca dalla Finanziaria italiana, per concordare una soluzione strutturale e definitiva attraverso una legge ordinaria o con un accordo bilaterale. Solu-zione che deve prevedere una franchigia di valore adeguato ed agganciata alle dinamiche dell’inflazione a garanzia dei redditi. Sul fronte interno è invece necessaria una parificazione del trattamento fra lavoratori sammarinesi e italiani, attraverso un sostanziale superamento della discriminazione fiscale introdotta con la Finanziaria del 2010.