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Ma Marchionne non è socialdemocratico

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Ci sono state reazioni di sorpresa alle dure dichiarazioni di Marchionne e in generale sulla netta posizione del capo della Fiat su Pomigliano. Probabilmente la sorpresa nasce da una premessa sbagliata. Questa premessa sbagliata è il socialdemocratismo di Marchionne, applicato come un’etichetta al risanatore della Fiat tra il 2006 e il 2007.

L’etichetta socialdemocratica nacque sostanzialmente da tre fatti: il licenziamento di un certo numero di manager intermedi appena arrivato a Torino, cioè un’azione sul personale non indirizzata agli operai delle fabbriche (il grosso degli esuberi della forza lavoro erano stati gestiti prima del suo arrivo); la concessione di un anticipo di 30 euro sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici 2007 e infine il ragionamento sulla specificità dell’Europa nel sistema capitalistico globale rispetto ad Asia e Stati Uniti, e cioè la responsabilità sociale dello Stato: questa riflessione fu ripetuta in un discorso pubblico in un convegno della rivista l’Industria, edita dal Mulino e vicina a Romano Prodi, da cui nacque l’intervista sul Corriere della Sera di Daniele Manca a Piero Fassino sul Marchionne socialdemocratico e che poi scatenò l’inseguimento e al tempo stesso il tentativo di appropriarsi di un rapporto privilegiato con Marchionne da parte del centrosinistra e del sindacato.

In realtà Marchionne non ha un orientamento socialdemocratico, è un capo azienda pragmatico, flessibile, cresciuto e formatosi da ragazzo in Nord America, cioè libertà e capitalismo, come ricordano i suoi amici di adolescenza e giovinezza. Tra le sue citazioni ricorrenti Joseph Schumpeter sulla distruzione creativa del capitalismo.

Prima della grande crisi globale, ha operato senza mettere in discussione la specificità europea. Appena la crisi globale si è manifestata ha cercato come gli altri capi industriali vie d’uscita. Una l’ha individuata in America, sostanzialmente allargando il perimetro della sua attività automobilistica per cercare così di ridurre gli squilibri economici di Fiat Auto. Negli Stati Uniti ha costruito un rapporto con l’Amministrazione. In Italia, invece, il rapporto con lo Stato si è allentato con l’interruzione dei contributi alla rottamazione. Ha liquidato Termini Imerese, ma deve restare a Pomigliano d’Arco – il più difficile degli stabilimenti del gruppo – perché gli azionisti non vogliono disimpegnarsi dal paese in cui Fiat è nata.

Venerdì è stato particolarmente diretto – sugli scioperi e la nazionale, sull’atteggiamento della Fiom, sul tenore della discussione pubblica riguardo alle relazioni industriali – ma non più diretto di altre occasioni: per esempio quando chiese al governo italiano di non immischiarsi nella partita Opel, quando prima propose contributi statali coordinati tra Europa e Stati Uniti e poi litigò con i ministri economici per la rottamazione, quando minacciò l’azione legale con Gm, o quando trattò con la Uaw e Caw, i metalmeccanici unitari statunitensi e canadesi, la partita Chrysler.

Marchionne pensa che il sistema delle relazioni industriali in Italia sia vischioso, pensa che il conglomerato Fiat-Chrysler non possa permetterselo, e punta a sconfiggere la Fiom considerata un simbolo del corporativismo sindacale. Preferirebbe un interlocutore unico come in America e più realista.

Alcuni a proposito della fiaccolata di ieri ha fatto un paragone con Cesare Romiti al tempo della marcia dei 40.000. Naturalmente c’è una analogia caratteriale, la cruda franchezza, ma sono molto diverse le condizioni in cui i due si sono trovati a operare. Romiti al centro di enormi tensioni ideologiche e dovendo pensare innanzitutto a mantenere un rapporto con la sua comunità – a capo di un’azienda concentrata sul territorio nazionale con oltre 250.000 dipendenti in Italia – e con lo Stato: del resto il simbolo delle politiche industriali di Romiti fu la rottamazione. Per Marchionne e per questa Fiat i legami domestici sono più laschi, al centro della sua politica non c’è più il rapporto con lo Stato, nel paese non c’è lo scontro ideologico di trent’anni fa e la stessa Fiom è cambiata, meno concreta e innovativa e più politica.

In queste ore alcuni si chiedono se il metodo impetuoso scelto da Marchionne per questo scontro – con la denuncia dell’illegalità negli stabilimenti e l’accusa di astrattezza delle posizioni avverse – sarà adatto al conseguimento dell’obiettivo che si è posto: imporre le sue regole nelle relazioni industriali. Questo si vedrà neiprossimi giorni.

Di Marco Ferrante (Il Riformista)