L’uscita dalla crisi e le sfide dell’Europa
La buona notizia viene dai dati congiunturali più recenti che confermano che la fase più drammatica della crisi dell’economia mondiale sta rientrando; meno positiva, invece, è la previsione che l’imminente ripresa economica avrà una dinamica assai contenuta nell’area più sviluppata e per un certo numero di anni; ma il dato più inquietante riguarda l’Europa che, fortemente penalizzata dalla crisi, è di fronte a scelte decisive per il suo futuro.
Alla ricerca di nuovi motori della crescita
Alla luce delle ultime evidenze la ripresa dell’economia mondiale sembra ormai alle porte. Resta aperto, tuttavia, l’interrogativo su quale intensità e sostenibilità potrà avere. A rallentare e attutire la caduta dell’attività produttiva in questi ultimi mesi sono stati, senza dubbio, gli stimoli monetari e fiscali attuati dai governi un po’ ovunque, anche se in misura particolarmente intensa in Nord America e nell’Asia del Pacifico. La mobilitazione di enormi quantità di risorse pubbliche in tempi così stretti, come non era mai più avvenuto dalla fine della seconda guerra mondiale, è servita a impedire che le maggiori economie del mondo sprofondassero in una vera e propria depressione. Ma per sviluppare e consolidare un nuovo e sostenibile ciclo espansivo a livello internazionale servirà il contributo fondamentale della spesa privata, sotto forma di consistenti incrementi di consumi e investimenti. Sono questi, da sempre, i veri motori della crescita delle economie di mercato. I più ottimisti ritengono che questa staffetta tra spesa pubblica e privata sia destinata a realizzarsi a breve e su ampia scala, così da spingere gli Stati Uniti e con essi l’economia globale verso un nuovo sentiero di crescita elevata, non lontana dagli standard del passato.
Ma si tratta solo di auspici, per ora. In primo luogo perché mancano, un po’ ovunque, segni premonitori e condizioni di una possibile consistente ripresa della domanda privata. E, poi, perché all’origine della gravissima crisi in corso vi è un enorme indebitamento del settore privato (famiglie, istituzioni finanziarie e imprese). Per poterlo riassorbire ci vorrà un periodo di tempo piuttosto ampio, svariati anni. Nel mentre, è altamente improbabile che si possa avere nell’area più sviluppata un vigoroso rilancio della domanda dei privati. Bisognerà in realtà aspettare a lungo perché i consumatori tornino a spendere come in passato e gli investitori a concentrare consistenti risorse negli aumenti di capacità produttiva. Tanto più che il mutamento strutturale nella composizione della domanda mondiale, indotto dal ridimensionamento della spesa per consumi delle famiglie americane, imporrà ai paesi con persistenti avanzi delle bilance correnti (in particolare Cina, Germania e Giappone) un difficoltoso processo di aggiustamento. Sarà dunque un’uscita faticosamente lenta dalla crisi che resta – non va dimenticato – la più grave che abbia investito gli Stati Uniti e l’economia mondiale negli ultimi 60 anni.
L’area più sviluppata: avanti piano, con fatica
Le previsioni ad oggi più attendibili sul futuro andamento dell’economia mondiale permettono di intravedere un dato certamente positivo nei mesi finali di quest’anno, ovvero la fine della fase recessiva, ma per le ragioni sopra ricordate scontano una fase di ripresa nei prossimi due anni assai contenuta, molto inferiore alle dinamiche del passato, soprattutto nell’area più sviluppata.
Tradotto in cifre, il Pil mondiale dovrebbe diminuire nel 2009 di circa il 2,5% e aumentare di circa il 2% nella media dei prossimi due anni. Incrementi assai modesti e che rappresenterebbero pressoché un dimezzamento della dinamica di crescita rispetto all’ultima fase di espansione globale. Ancora più contenute si presentano le prospettive di espansione dei paesi più sviluppati. Il Pil dell’area Ocse, nonostante i miglioramenti più recenti dei principali indicatori economici, dovrebbe aumentare di poco più dell’1% nella media dei prossimi due anni. Sarebbe soprattutto l’occupazione a risentirne, con aumenti generalizzati dei tassi di disoccupazione fino alla prima metà del prossimo anno, e difficoltà di riassorbimento dell’elevato numero di disoccupati anche nel 2011. C’è chi si spinge a disegnare uno scenario ancor più cauto e prefigura di qui a due anni una ripresa globale destinata a subire una nuova interruzione (una sorta di percorso a W del ciclo espansivo), per il venir meno degli effetti dello stimolo pubblico fiscale e in presenza di una domanda privata particolarmente debole e anemica. Ma è un’eventualità che oggi appare remota, pur se non è da escludere che si possa verificare nel caso di qualche maggiore paese.
La crisi ha esaltato debolezze e punti di forza dell’Europa
Anche l’economia europea dovrebbe approfittare nel prossimo anno del graduale recupero della domanda mondiale e tornare a crescere dopo la drammatica caduta dell’attività produttiva, verificatasi con particolare virulenza in molti paesi del continente tra la fine dello scorso anno e il primo semestre di quest’anno.
Secondo stime largamente condivise la caduta del Pil dell’Unione europea dovrebbe aggirarsi quest’anno intorno al -4%. È la conferma del prezzo altissimo che le economie europee stanno pagando a causa della crisi, addirittura più pesante di quello degli Stati Uniti (-2,5%) che è stato – e rimane – il paese epicentro della crisi globale. Tutto ciò nonostante i ‘fondamentali’ dell’Europa (finanza pubblica, saldo della bilancia dei pagamenti, risparmio-indebitamento del settore privato, solidità del sistema bancario) si presentassero molto più solidi di quelli americani all’inizio della crisi.
Due fattori in particolare aiutano a spiegare una performance così negativa. In primo luogo, l’attività produttiva dell’Europa, e in particolare della Germania, è stata colpita duramente dal recente crollo del commercio mondiale, perché la sua crescita, nonostante le grandi dimensioni del mercato interno europeo, è fortemente dipendente dalle esportazioni e dalla domanda mondiale. È un elemento di debolezza che caratterizza da tempo l’economia europea nel suo complesso.
In secondo luogo, l’Unione Europea non dispone, a differenza degli altri grandi paesi, di politiche efficaci, soprattutto di una politica fiscale comune, per affrontare una drammatica crisi come l’attuale, caratterizzata da una caduta verticale della domanda aggregata. Le politiche macroeconomiche che servono e le misure di emergenza sono tutte nelle mani dei singoli stati membri; ma la somma di tanti singoli stimoli nazionali, com’è noto, non può avere – e non ha avuto – altrettanto efficacia di una politica comune europea.
Certo, la gestione della crisi ha anche messo in risalto indubbi punti di forza dell’Unione. È il caso dell’euro e dell’integrazione monetaria: ha consentito a molti paesi europei, tra cui il nostro, di evitare crisi valutarie e finanziarie dagli effetti devastanti e ha favorito interventi di liquidità gestiti dalla Banca centrale europea, che hanno funzionato ottimamente nella fase più acuta della crisi finanziaria. Ma il saldo netto della crisi resta per ora negativo. Soprattutto, perché non è stata colta l’opportunità che l’emergenza offriva di rafforzare strumenti e pratiche di una politica economica comune europea. Ciò vale in particolare per il gruppo dei paesi dell’euro, legati da una interdipendenza reale e monetaria ormai elevatissima ma che non appare sostenuta da una governance economica altrettanto sviluppata e in grado di gestirla e indirizzarla efficacemente.
Il crocevia dell’Europa all’uscita dalla crisi
I più recenti dati di alcune economie europee e relativi al secondo semestre del 2009 hanno sorpreso un po’ tutti, segnalando una inversione del ciclo economico e una seppur modesta ripresa nel cuore dell’Europa, in particolare in Francia e Germania. Ma va subito detto che non è il caso di lasciarsi andare a facili ottimismi. Al di la dei positivi andamenti congiunturali, limitati peraltro alle due più grandi economie europee e dovuti a fattori temporanei di origine interna e esterna, le previsioni più diffuse individuano per l’area dell’Euro una ripresa, di qui a due anni, particolarmente contenuta. Una oscillazione intorno alla crescita zero nel 2010 e un anemico incremento l’anno successivo (intorno all’1%). Sono performance deludenti, ma che discendono dagli effetti pesantemente negativi derivanti dalla crisi e dalle perdite in termini di capacità di crescita che ne sono derivate.
La Commissione Europea ha recentemente pubblicato uno studio con riferimento all’eurozona che mostra una significativa riduzione allo 0,7% per il biennio 2009-2010 del potenziale di crescita annua, una volta tenuto conto di tutti gli effetti della crisi finanziaria.
A questo riguardo si possono configurare per i prossimi anni due scenari di uscita dalla crisi e ripresa in qualche modo alternativi. Il primo, più negativo, prevede un assestamento permanente verso il basso del potenziale di crescita dell’area europea con solo marginali miglioramenti (un tasso di crescita di lungo periodo intorno all’1%). Nel secondo scenario la ripresa potrebbe essere assai più vigorosa con una crescita al di sopra del potenziale che riporterebbe quest’ultimo ai livelli precedenti la crisi (2%) con possibilità di ulteriori incrementi nel tempo.
Al di là dei molteplici e complessi fattori che potranno spingere nell’una o nell’altra direzione non vi è dubbio che le strategie e le scelte di politica economica dell’Europa nell’immediato futuro avranno un ruolo di grande rilevanza. Pur con drastiche semplificazioni si può affermare che la riproposizione in ambito Ue di strategie già sperimentate con poco successo nell’ultimo decennio, ovvero strategie di crescita prettamente nazionali, tese a rafforzare competitività e esportazioni dei singoli paesi, attraverso il contenimento dei costi e iniziative neomercantilistiche, contribuirebbero alla realizzazione del primo scenario. Com’è già avvenuto in passato, avremmo processi di crescita trainati dall’esterno, ovvero dalla domanda mondiale, destinati a favorire certamente qualche paese europeo, tra cui la Germania, ma a penalizzare allo stesso tempo la domanda e il mercato interno europeo, accentuando gli squilibri tra paesi membri. Il risultato ultimo sarebbe di deprimere ulteriormente le potenzialità di crescita complessiva dell’area europea, non riuscendo a recuperare le perdite subite a causa della crisi.
Il secondo scenario, più positivo, presuppone una strategia alternativa, che miri a rilanciare la crescita sviluppando il mercato e la domanda interna europea. Anche perché non ci sarà più il motore americano – come avvenuto nell’ultimo decennio – ad assicurare una forte e crescente domanda mondiale. Si può agire sia attraverso nuovi consumi (si pensi a investimenti europei in aree come la difesa e valorizzazione dell’ambiente, la protezione della salute, l’Ict) sia completando il mercato interno europeo in alcune sue dimensioni essenziali, come i servizi e la creazione di uno spazio comune della ricerca e della conoscenza. È un percorso più difficile da intraprendere perché in un’epoca di rilancio dei nazionalismi, dentro e fuori l’Europa, richiede di nuotare controcorrente e sfruttare l’uscita dalla crisi per rafforzare il processo di integrazione europea. Un obiettivo fondamentale, quest’ultimo, anche per rilanciare il ruolo dell’Europa nel nuovo sistema internazionale multipolare che sta emergendo dalla crisi. Servirebbero una nuova Commissione e leader politici europei coraggiosi e pronti a cogliere tale opportunità. Auguriamoci di trovarli.
Paolo Guerrieri è professore ordinario all’Università di Roma ‘La Sapienza’ e vice-presidente dello Iai.