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Lotta al terrorismo dopo la strage di Oslo

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Il premier norvegese continua a ripetere che il suo paese e il suo governo non sono “ingenui”. L’affermazione è quanto meno sorprendente, ma sottolinea bene lo sconcerto e la confusione della reazione iniziale al gravissimo attentato di Oslo e al successivo massacro nel campo estivo del partito laburista.

Quando il primo ministro spagnolo Aznar fu preso egualmente di sorpresa dagli attentati di Madrid del 2004, fu accusato al contrario di occhiuta malizia e di aver voluto mascherare la realtà perché, invece di prendersela subito con il terrorismo islamico, concentrò la sua reazione iniziale contro i terroristi baschi dell’Eta.

In Norvegia hanno fatto esattamente il contrario, anche se le dichiarazioni ufficiali sono state più prudenti di quelle iberiche. Ma l’immediata decisione di “chiudere” le frontiere, sospendendo l’applicazione degli accordi di Schengen, indica come il riflesso contro il nemico “esterno” sia stato molto più forte (e forse più facile) di quello contro il nemico “interno”.

Nuova frontiera
La “chiusura” delle frontiere – che poi equivale semplicemente, nel nostro caso, ad un ritorno temporaneo del controllo di identità alle frontiere: certo non una misura risolutiva, in termini di sicurezza – è d’altro canto sempre popolare specie tra chi è convinto che siano minacciati dall’estero e dagli immigrati i valori sia economici che spirituali del proprio paese.  Vi è ricorso anche il governo francese, che sembra sempre alla ricerca di misure “esuberanti” di sicurezza, forse per contrastare una certa perdita di consensi interni. Peccato che invece la minaccia reale provenisse, in questo caso, proprio da un personaggio che elevava all’ennesima potenza questi stessi valori, nella forma di preconcetti razzisti e conservatori.

Da un punto di vista meramente “tecnico”, il “neo-templare” norvegese è un terrorista “fai-da-te” ovvero, come lo definiscono con maggiore precisione negli Usa, “homegrown”, coltivato in casa.  Anche Al-Qaida sostiene di voler puntare su questo tipo di reclute, considerate insieme come più facilmente “spendibili” (anche se vengono catturate non danneggiano l’organizzazione, perché in genere non hanno contatti diretti con la direzione strategica o con altre cellule operative) e soprattutto molto più difficili da individuare e neutralizzare preventivamente, perché parte integrante della società del paese in cui operano (e di cui hanno la nazionalità).

Anche le tecniche usate, dall’auto-bomba caricata (a quel che sembra dalle prime notizie) con esplosivo non tradizionale, sino al massacro compiuto con armi da guerra, sono sostanzialmente le stesse, molto semplici e purtroppo anche efficaci.

Ideologismo
La differenza è di tono, per dir così, ideologico: nel suo lunghissimo memoriale diffuso via Internet, il trentenne assassino norvegese si presenta come l’esatto contraltare delle posizioni jihaidiste. In realtà ne condivide l’impostazione fondamentalmente conservatrice (ad esempio nei confronti della donna, del sesso o dell’educazione dei giovani) ma, invece di scorgere tutto il male ad Occidente, egli lo individua nell’Islam e nel marxismo in ogni sua forma (socialdemocratica o rivoluzionaria): un altro punto di convergenza con i suoi fratelli-nemici musulmani.

Ma questa, direbbe un marxista, è solo sovrastruttura: al di sotto delle parole vi è una evidente convergenza tecnica e operativa. Il terrorista suprematista bianco e cristiano non va a combattere l’Islam, come i suoi amatissimi cavalieri crociati, ma si impegna ad ammazzare quanti più suoi concittadini possibile. Anche qui vi è qualche similitudine con i corrispettivi islamici che, malgrado abbiano compiuto o suggerito grandi massacri in Occidente, ora sembrano concentrarsi sempre di più nell’uccisione di altri musulmani.

Il fatto è che il terrorismo internazionale in senso proprio, esemplificato dagli attacchi dell’11 settembre, e da pochi altri successivi, è oggi molto più difficile da attuare, poiché i terroristi non riescono più facilmente a cogliere completamente di sorpresa le forze dell’ordine e quelle dell’intelligence. In compenso però, come spesso accade, mentre siamo meglio attrezzati a combattere la guerra precedente, continuiamo ad essere impreparati a quella realmente in corso o futura.

Analisi e controllo
Il nuovo terrorismo internazionale si sviluppa più che altro attraverso la circolazione di incitamenti ad agire e di informazioni che aiutano ad agire (incluse tecniche di costruzione degli ordigni o alcune tattiche di mascheramento ed evasione), lasciando ai singoli terroristi “locali”, quali che siano le loro convinzioni (in fondo che importanza ha se si tratta di cristiani o musulmani o altro ancora?), il compito di disseminare morte e distruzione, il terrore insomma.

Ciò avrà sicuramente importanti conseguenze. Le forze dell’ordine dovranno imparare a reagire agli allarmi molto più rapidamente e senza preconcetti “razziali” o “culturali” (i gravi ritardi della polizia norvegese sono inescusabili). Ma soprattutto i servizi di intelligence dovranno affinare moltissimo la conoscenza di tutte le frange più o meno politicizzate delle nostre società, individuandone per tempo la vocazione violenta. Soprattutto usando tali conoscenze per indirizzare indagini più attente e fattuali alla ricerca di armi e altri materiali, nonché delle competenze tecniche necessarie per compiere attentati.

Tutto ciò diminuirà inevitabilmente il livello di riservatezza per i singoli cittadini ed accrescerà le spinte al controllo governativo del web: sviluppi questi necessari, ma che rischiano di essere attuati in modo scoordinato dai singoli governi nazionali, ognuno con le sue priorità e i suoi interessi.

Il terrorismo “fai-da-te” sarà anche “locale” per quel che riguarda i suoi miliziani, ma è internazionale per i suoi riferimenti, collegamenti e complicità. Ciò esige una risposta coerente e comune tra tutti i paesi a rischio, a cominciare da quelli europei. Non andare rapidamente in questa direzione significherebbe veramente dar prova di un’“ingenuità” criminale.

Di Stefano Silvestri presidente dello Iai e direttore di “Affarinternazionali”.

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