Lo spettro Chernobyl 25 anni dopo
Lo spettro nucleare non è stato ancora definitivamente sepolto e venticinque anni dopo quel giorno maledetto di fine aprile l’Ucraina che non è più Urss si confronta con la tragedia del passato e i dubbi sul futuro. E con la vecchia repubblica sovietica lo fanno le ex sorelle piccole e grandi, da Mosca a Minsk, e il resto del mondo che ricorda la tragedia di allora e ha davanti le immagini fresche di Fukushima.
Nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1986, all’una e ventitre, si verificò l’esplosione al reattore numero quattro della centrale. Non causato da uno tsunami, ma da un’incredibile serie di errori umani che si sommarono a una tecnica inadeguata. Durante un test durante il quale erano stati staccati i sistemi di sicurezza tutto quello che poteva andare storto andò peggio. Fu liberata radioattività tra i 50 e i 250 milioni di Curie, una quantità circa cento volte maggiore rispetto a quella delle bombe americane su Hiroshima e Nagasaki nel 1945 e una nube radioattiva si spostò verso gran parte d’Europa, colpendo soprattutto Bielorussia e Russia, oltre che naturalmente l’Ucraina.
Allora la geografia politica era un’altra, c’era appunto l’Unione Sovietica. Ma come si è sentito dire a ogni piè sospinto in questi giorni di commemorazioni «gli incidenti nucleari non conoscono confini» e quando capita qualcosa gli affari sono di tutti. Tra disinformazione, disorganizzazione e sottovalutazione, Mosca fece quello che poté per metterci una pezza, ma in realtà Chernobyl fu anche il segnale politico che l’Impero era vicino al collasso. Al Cremlino sedeva da più di un anno Mikhail Gorbaciov, a cui l’Occidente perdona volentieri i peccati più gravi, ma al quale a casa propria nessuno fa sconti. Questione di prospettiva.
La piccola cittadina a nord di Kiev, vicino al confine bielorusso, fu evacuata insieme con la limitrofa Pripyat trentasei ore dopo il botto. Sessantamila persone, che pensavano di rientrare dopo tre giorni, caricate su oltre mille bus e portate lontano. Nel raggio di trenta km altre centotrentamila furono costrette ad abbandonare per sempre le loro case nei giorni successivi, mentre le radiazioni avevano già contaminato tutto e la gran parte della popolazione si apprestava a godersi la tradizionale vacanza tra il primo e il nove maggio, anniversario della vittoria sui nazisti nella Grande guerra patriottica. In totale gli evacuati furono poi trecentocinquantamila. Il 14 maggio Gorbaciov andò in televisione a spiegare ai sovietici quello che era successo e che stava succedendo. Più o meno. Il resto del mondo, anche se allora internet non c’era, sapeva però già abbastanza.
«Un disastro nucleare e un disastro di informazione» è stata la definizione che si è sentita in questi giorni a Kiev durante la conferenza internazionale organizzata dall’Iaea nell’ambito del venticinquesimo anniversario. Le catastrofi non vengono mai sole. E così è proseguito. La dissoluzione dell’Urss è arrivata puntuale come lo scaricabarile. Ognuno a occuparsi, anzi a trascurare, il proprio pezzo di terra contaminato: Ucraina, Russia e Bielorussia a dividersi il peso delle conseguenze e i doveri di assistenza. Compito improbo per tre repubbliche che in cinque lustri sono sempre state appese all’aiuto della comunità mondiale. Vedere alla voce sarcofago.
La settimana scorsa sono stati raccolti 550 milioni di euro per la futuristica struttura che dovrebbe assicurare tranquillità per i prossimi cento anni. Un progetto da oltre un miliardo e mezzo di euro per seppellire definitivamente il reattore numero quattro e costruire un nuovo impianto di stoccaggio per le scorie. Ma tra la crisi internazionale e Fukushima, la conferenza dei donatori a Kiev è rimasta sotto i 740 milioni richiesti per coprire tutti i costi. E così l’Ucraina dovrà continuare a elemosinare. La gigantesca bara sarà costruita accanto alla centrale e poi fatta scorrere sino a piazzarsi sopra la vecchia usurata. Entro il 2015 dovrebbe essere completata. Il condizionale è d’obbligo, per un piano iniziato nel 1997 che doveva concludersi nel 2007 e che in realtà deve praticamente ancora partire. Anche se l’Unione Sovietica non c’è più da vent’anni, i ritmi e i difetti sembrano essere quelli di allora.
Tempi e numeri spesso un’incognita. Tanto che ancora oggi non si sa bene davvero quante siano state le vittime del disastro. Qualche decina, se si contano solo gli early liquidators, gli eroi che per primi si impegnarono nelle operazioni per tamponare la fuga dal reattore. Circa quattromila se si dà retta alla Iaea, che si riferisce ai casi in cui le morti possono essere messe direttamente in relazione con l’esposizione a dosi elevate di radioattività. Circa venticinquemila, come indicano fonti non ufficiali. Ma è un calcolo spesso fine a se stesso, dato che mancano dati attendibili e riconosciuti per tutti i territori colpiti. Più difficoltoso è ancora definire il numero di coloro che hanno sofferto, soffrono e soffriranno delle più varie malattie, dal tumore alla tiroide ai disturbi psichici. L’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità ha fatto recentemente osservare come la comunità internazionale debba supportare le ricerche sul lungo periodo perché “gli effetti dell’incidente continuano ancora oggi e non sono ancora del tutto noti”.
È passato un quarto di secolo, ma le lezioni del passato non sono certo state tutte assimilate. Secondo un recente sondaggio la maggior parte degli ucraini teme nuovi incidenti e non si fida dell’atomo. Nel paese sono presenti quattro centrali, altre sono in progetto. Il nucleare fornisce quasi il 50 per cento dell’energia e senza di esso qui non si non si potrebbe andare avanti. Chernobyl ha lasciato il segno, ma una strategia energetica alternativa per il futuro non è all’orizzonte. Almeno a Kiev e dintorni.
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