L’Iraq in bilico tra Washington e Teheran
A due mesi di distanza delle elezioni parlamentari irachene, il paese è ancora immerso in una transizione particolarmente travagliata, mentre si avvicina l’inizio del ritiro militare americano, previsto per fine agosto. Il rischio che il paese ricada nel caos e nella violenza di natura settaria è più che mai concreto, mentre il suo futuro democratico appare ancora incerto. Tra Washington, Baghdad e Teheran si rincorrono le voci di riconteggi dei voti e di nuove alleanze, di influenze esterne e di rinnovati impegni elettorali.
Un panorama post-elettorale ancora incerto
Benché il capitolo delle elezioni del 7 marzo scorso non si sia ancora chiuso, vincitori e vinti di quello che è stato definito il banco di prova per la tenuta e la stabilità dello stato iracheno sono abbastanza chiari. Tra i primi vi sono i due principali contendenti: Nuri al Maliki, primo ministro uscente e leader dell’Alleanza per lo Stato di diritto, una formazione di 36 gruppi politici riuniti intorno al partito Da’wa, guidato dallo stesso al Maliki; e Iyad Allawi, capofila dell’alleanza nazionalista Iraqiya che si oppone alla polarizzazione etnica e confessionale. Le due coalizioni hanno conquistato rispettivamente 89 e 91 seggi, in entrambi i casi un buon risultato che ha premiato il fatto che sia stata data precedenza a programmi concreti. In generale, il passaggio da un sistema su base settaria a uno di carattere nazionalista, in cui i candidati hanno ottenuto consensi a livello personale sulla base di un sistema elettorale proporzionale cosiddetto “a lista aperta”, rappresenta un’evoluzione positiva, anche se non scongiura il rischio che il paese possa ripiombare nella violenza.
Sul versante degli sconfitti, la situazione è ancora troppo fluida per poter dire chi abbia perso le elezioni senza possibilità di appello – le richieste di riconteggio ne sono un esempio – o di ripescaggio – nessuna delle due coalizioni di punta potrà governare senza il supporto di altre forze politiche. Certamente le due principali formazioni politiche curde non hanno ottenuto il risultato sperato, nemmeno in quella che è una delle loro roccaforti, Kirkuk, dove hanno ottenuto soltanto il 50% circa dei consensi. Questo insuccesso potrebbe indebolire l’incisività delle richieste curde a favore della regolamentazione attraverso referendum del futuro delle regioni del nord che sono contese tra diverse etnie.
Infine, una delle questioni più spinose è quella dell’influenza iraniana sull’Iraq, che gli americani hanno cercato di contrastare in tutti i modi. Sebbene Teheran venga spesso inserita nella colonna dei perdenti in Iraq, alla luce dei risultati delle elezioni e del fatto che a esse non ha partecipato una coalizione sciita coesa, in realtà la situazione appare più complessa e un certo grado di influenza sull’Iraq da parte dell’Iran deve necessariamente essere messo in conto.
Quale Iraq dopo il ritiro americano?
Subito dopo il voto si è scatenata tra al Maliki e Allawi una lotta spietata, combattuta a colpi di richieste di riconteggio dei voti, per lo scranno di primo ministro. Tuttavia, l’assegnazione dell’incarico di guidare il governo a uno due contendenti non è scontata, a causa dell’esistenza di forti resistenze da parte di alcune componenti politiche nei confronti di entrambe le personalità. Sembra esserci la possibilità che emergano candidati dalla seconda linea delle coalizioni che si formeranno e consolideranno nelle prossime settimane. I recenti sviluppi, compreso l’annuncio della formazione di una coalizione tra l’Alleanza per lo Stato di Diritto di al Maliki e l’Alleanza nazionale irachena (Iraqi National Alliance – Ina), che riunisce le principali formazioni politiche sciite, vengono interpretati come un ricompattarsi del blocco sciita a svantaggio dei sunniti, che pure hanno partecipato massicciamente alle elezioni sostenendo Allawi.
I due alleati disporrebbero in questa nuova configurazione di 159 voti e forse della forza di far pendere l’ago della bilancia dalla loro parte. I quattro voti necessari, e molti altri ancora, a conquistare la maggioranza dei 325 seggi in Parlamento potrebbero, a quanto sembra, provenire dalle formazioni curde che sarebbero a questo punto incentivate a salire sul carro del vincitore. Sebbene la situazione sia talmente fluida da poter cambiare nel giro di poche ore, questa evoluzione ribalterebbe radicalmente il risultato che sembrava essere stato raggiunto all’indomani delle elezioni.
Il ritorno della politica settaria, le voci secondo le quali dietro a questo ricompattarsi del blocco sciita iracheno vi sia la mano dell’Iran e la quasi totale esclusione dei sunniti dal probabile futuro governo iracheno, configurano una situazione del tutto identica a quella emersa dalle elezioni di cinque anni fa, con il conseguente rischio che l’equilibrio tra le parti si infranga soprattutto sotto il peso del malcontento della componente sunnita.
Dall’elenco di vincitori e vinti emerge un’immagine tutt’altro che nitida del futuro dell’Iraq. Quello che appare chiaro è che il nuovo governo, anche se si insedierà tra sei mesi e in seguito a lunghi ed estenuanti negoziati tra le parti, avrà il compito di traghettare il paese fuori dalla crisi, di provvedere alla sua stabilizzazione sullo sfondo di una sempre più ridotta presenza americana e di legiferare su una serie di questioni fondamentali rimaste in sospeso: dalla questione energetica a quella del rapporto tra il governo federale e quelli regionali.
In questa fase di delicata incertezza tutti gli occhi sono puntati sulle mosse degli attori interni, molto spesso interpretate in maniera univoca quale riflesso delle posizioni degli attori esterni, Stati Uniti e Iran in primis. Per quanto Obama sembri convinto di voler ritirare altri 45.000 soldati dall’Iraq entro il 31 agosto 2010, onorando l’impegno assunto nella campagna elettorale del 2008, è difficile non vedere che qualche ostacolo in più si potrebbe profilare all’orizzonte del ritiro americano. La crescente influenza iraniana, a detta di molti analisti, potrebbe essere uno di questi.
La sindrome iraniana
Lo spettro dell’Iran è stato agitato prima, durante e dopo le elezioni irachene, catalizzando l’attenzione esclusiva degli osservatori esterni, in particolare statunitensi. Vista la priorità che la questione iraniana, soprattutto per il dossier nucleare, ha nell’agenda americana, non sorprende il fatto che gli Stati Uniti abbiano tentato di arginare il più possibile l’influenza iraniana nel paese. Ad uno sguardo più attento, tuttavia, il il rapporto tra Iran e Iraq è più complesso di quanto non si tenda a ritenere. Due fattori, in particolare, devono essere tenuti in considerazione: da una parte, la tendenza della comunità sciita irachena a gravitare verso l’Iran e, dall’altra, l’esistenza di relazioni economiche importanti.
Sebbene l’Iraq sia, al pari dell’Iran, un paese a maggioranza sciita, la maggior parte delle formazioni politiche sciite irachene non sono particolarmente suscettibili a essere controllate dall’Iran, né ad agire in qualità di “fantocci” nelle mani di Teheran. Il forte senso di identità nazionale che percorre tutta la società irachena non permette un’identificazione troppo stretta della maggioranza sciita con le posizioni espresse dalle gerarchie religiose iraniane. Senza dimenticare il fatto che gli iraniani, a differenza degli iracheni, non sono arabi. D’altro canto, dal punto di vista economico, quella che doveva essere un’“americanizzazione” dell’Iraq all’indomani della caduta di Saddam Hussein si è in realtà rivelata una “iranizzazione”.
L’Iran è oggi il primo partner commerciale dell’Iraq della ricostruzione con un valore di interscambio ufficiale tra i due paesi che si attesta sui 5 miliardi di dollari l’anno, mentre gli Stati Uniti sono soltanto al quarto posto. Il legame tra i due paesi riposa dunque più su motivazioni di carattere economico che non religioso. Il complesso mosaico di rapporti commerciali, politici, culturali e religiosi che unisce Iran e Iraq può certamente portare a una forma di influenza significativa dell’uno sull’altro. La portata e le implicazioni di questa influenza vanno valutate con grande attenzione, anche in prospettiva del graduale ritiro americano.
Di Silvia Colombo assistente alla ricerca dell’Istituto Affari Internazionali.