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Libia: dal baciamano ai bombardamenti

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La crisi libica ha messo in luce sia l’improvvisazione e il dilettantismo della politica estera del governo Berlusconi sia le sue divisioni. Nell’arco di pochi giorni, dopo aver usato al Colonnello Gheddafi la cortesia di “non disturbarlo” nei primi momenti della rivolta, il nostro governo ha abbandonato il ras di Tripoli in fretta e furia bollandolo con giudizi taglienti e ultimativi, fino a definirlo, per bocca del Ministro degli Esteri Franco Frattini, “un uomo finito”.

La rapidità con cui è stato compiuto il voltafaccia si spiega con l’imbarazzo per l’eccessiva familiarità dimostrata negli ultimi anni con il regime libico. A onor del vero, tutti i paesi occidentali, una volta che la Libia era stata riammessa nel consesso internazionale, si sono precipitati a fare affari con Gheddafi. Ma solo noi abbiamo riservato accoglienze principesche alla Guida della Jamahiria. Solo noi abbiamo siglato onerosi patti di cooperazione con clausole riguardanti anche il settore militare. Solo noi abbiamo concordato un pattugliamento misto delle coste marittime instaurando di fatto una cooperazione militare. Solo noi abbiamo appaltato senza condizioni o controlli la gestione dei flussi migratori (e i reportage di Fabrizio Gatti su questo giornale hanno ben documentato il disastro umanitario causato dall’aver affidato ai libici il “lavoro sporco”).

Questa politica accondiscendente nei confronti del Colonnello è stata ora sostituita da una politica di fermezza, in linea con i partner europei e occidentali. Ma il governo è diviso su questo passaggio ed è prevedibile che, con l’avanzata verso la Cirenaica delle forze lealiste, i contrasti all’interno della maggioranza aumenteranno. L’invito, a metà strada tra il ridicolo e l’offensivo, formulato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni all’indirizzo degli Stati Uniti di “darsi una calmata” quando prospettavano l’uso della forza contro Tripoli, fa sorgere il sospetto che alla Lega, sotto sotto, la vittoria di Gheddafi non dispiaccia. Del resto, se per il Carroccio l’interesse nazionale coincide con il blocco dell’immigrazione a ogni costo, allora la sopravvivenza del dittatore libico supera ogni remora dettata da principi morali e azzera ogni vincolo con i partner europei e occidentali.

Il conflitto tra l’invocazione del primato dell’interesse nazionale (economico, militare, di sicurezza, di prestigio, di influenza e quant’altro) e il perseguimento di principi e valori etico-politici (la promozione della democrazia, il rispetto dei diritti umani) è una costante della politica estera. La crisi libica ha messo in tensione questi due principi.

Il governo Berlusconi, e non da questa legislatura, aveva sbandierato l’intenzione di perseguire una politica più assertiva e attenta agli interessi nazionali, accusando, tra l’altro, l’Unione europea di mortificare le nostre aspirazioni. Questa politica si è concretizzata nelle “amicizie” verso regimi autoritari e di dubbia democrazia, da Lukashenko a Gheddafi passando per Putin, e ha gettato alle ortiche considerazioni etico-politiche di rispetto dei diritti umani. Nelle ultime settimane il richiamo all’ordine impartito dagli alleati è stato recepito dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Esteri. I principi di promozione della democrazia e di difesa delle popolazioni civili sono tornati in prima fila. Ma non è detto che la Lega, animata da una visione nazionalista e parrocchiale per cui “il sacro suolo della patria va difeso dalle orde straniere”, si adegui. La conseguenza ultima della crisi libica non sta solo nell’affondamento della politica personalista e velleitaria del Cavaliere ma anche nella perdita di coesione interna alla maggioranza, con il Carroccio pronto a stendere la mano al ritorno del Colonnello (nell’interesse nazionale ovviamente).

Di Piero Ignazi (Espresso)

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