L’Europa e i debiti della Grecia
Doveva essere il vertice europeo dedicato alla strategia di rilancio della crescita dell’Europa nel prossimo decennio, battezzata enfaticamente ‘Europa 2020’. È stato invece un vertice dominato dal compromesso raggiunto all’ultimo momento sui debiti della Grecia. Un accordo di basso profilo che se servirà a scongiurare, a più breve termine, una crisi finanziaria potenzialmente devastante, rinvia ancora una volta i problemi più spinosi, accrescendo i timori di un lungo ristagno dell’economia europea nei prossimi anni.
L’accordo sui debiti della Grecia
In base all’accordo siglato, la Grecia potrà ricevere prestiti dagli altri paesi membri dell’area dell’euro su base volontaria e bilaterale e così anche prestiti da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), ma solo se si verrà a trovare in condizioni di grave difficoltà nella gestione del suo debito. L’ammontare complessivo è ancora da definire, ma si pensa a una quota di due terzi da coprire attraverso risorse europee (circa 20-22 miliardi di euro) e un terzo da soddisfare attraverso l’intervento del Fmi (intorno ai 10 miliardi).
È una formula di compromesso varata da un accordo franco-tedesco dell’ultima ora, che premia soprattutto la Germania rispetto a molti altri paesi dell’euro area, inclusa la Banca centrale europea, che avevano caldeggiato a lungo una soluzione interna coordinata tra i Paesi membri. Si era parlato, ad esempio, di un prestito comunitario che avrebbe potuto portare, a medio termine, alla creazione di un Fondo monetario europeo (Fme) in grado di gestire secondo procedure prestabilite le crisi.
È comunque un passo avanti: finalmente si prende atto che l’esplosione di una crisi determinata dall’insolvenza anche di un piccolo paese membro dell’euro, come la Grecia, è in grado di provocare danni molto rilevanti, a causa dell’effetto contagio, agli altri paesi dell’euro area e alla stessa stabilità della moneta unica.
L’aggiustamento della Grecia sarà lungo e dall’esito incerto
L’accordo siglato nel vertice europeo di Bruxelles segna, tuttavia, solo l’inizio della crisi del debito greco, non certo la sua fine. In questa prima fase molto dipenderà dalla Grecia, che deve attuare il rigoroso programma di risanamento delle sue finanze pubbliche approvato dalla Commissione europea, vincendo innanzi tutto le forti e preoccupanti proteste sociali che si sono già levate nel paese. Non va dimenticato che il dissesto di bilancio che ha fatto lievitare il debito pubblico greco – già oggi al 113 per cento del Pil – è responsabilità innanzi tutto della stessa Grecia che ha truccato i propri conti e infranto le regole esistenti per entrare, prima, nell’euro e per evitare, poi, le sanzioni di Bruxelles.
Il processo di risanamento del debito greco durerà tuttavia molto più a lungo dei tre anni oggi preventivati e costerà almeno tre volte (75 miliardi di euro) secondo le stime più attendibilie le risorse attualmente stanziate. Ma soprattutto il suo esito finale è ancora tutto da scrivere perché legato ad andamenti che andranno al di là delle vicende del singolo paese e interesseranno l’area dell’euro nel suo complesso.
Disavanzi fiscali e squilibri nell’euro area
In un precedente articolo su questa rivista si erano già messi in risalto gli squilibri economici che si sono accumulati nell’euro area in questi primi dieci anni di vita della moneta unica e che non sono attribuibili alla recente crisi. La misura più appropriata per valutare la consistenza di questi squilibri è data dall’andamento dei costi unitari del lavoro dei singoli paesi membri, che dipendono dal salario nominale e dall’evoluzione della produttività. Un sistema economico guadagna (o perde) competitività se i salari crescono meno (o più) della produttività. In questi dieci anni i costi unitari di alcuni paesi, soprattutto quelli mediterranei (Spagna, Portogallo e Italia) sono aumentati fra il 15 e 25 per cento più di quelli della Germania, che grazie alla crescita della produttività e ancor più alla moderazione salariale è riuscita a mantenerli su livelli pressoché stabili in termini nominali.
Negli anni, l’andamento delle domande interne degli stessi paesi e la presenza di una moneta unica hanno trasformato questi divari di competitività in persistenti squilibri delle bilance correnti all’interno dell’area, in particolare in un avanzo commerciale di proporzioni quasi cinesi della Germania e in disavanzi (commerciali e correnti) simmetricamente altrettanto elevati dei paesi della fascia mediterranea, quali Spagna, Portogallo, e, in minor misura, Italia. La crisi globale ha fatto poi esplodere in tutti questi paesi i deficit pubblici attraverso una caduta generale della domanda, anche in paesi fiscalmente virtuosi come la Spagna.
Le diverse terapie necessarie
Se è vero in generale che tutti i paesi dell’euro area dovranno procedere – e al più presto – a risanare i propri dissestati conti pubblici, le terapie da adottare dovrebbero essere diverse. Sarà necessario distinguere tra i casi in cui, come in Grecia, le cause dei deficit sono dovute eminentemente a sregolatezze fiscali del passato, e quelli in cui è necessario intervenire anche sugli squilibri competitivi accumulati fino ad oggi, come nel caso della Spagna e anche dell’Italia.
Nel primo caso vanno applicate – e con maggiore rigore rispetto al passato – la disciplina e le regole comuni di una ordinata gestione dei conti pubblici, arrivando anche a rivedere, in direzione di un suo rafforzamento, il Patto di stabilità e crescita (Psc) europeo: a causa della crisi i vincoli esistenti del 3% del disavanzo sul Pil e quello del 60% del debito sul Pil si sono infatti fortemente indeboliti. La sola revisione del Psc, tuttavia, non sarà sufficiente nel secondo caso, dove c’è da procedere ad aggiustamenti evitando che i loro oneri ricadano interamente sulle spalle dei paesi in disavanzo (in questo caso i paesi del mediterraneo), cercando di coinvolgere anche i paesi in avanzo (come la Germania). In assenza di una qualche simmetria, in effetti, si verificherebbe una inevitabile contrazione della domanda interna europea e, con essa, della crescita complessiva dell’area dell’euro. Ciò renderebbe assai più gravosi, se non addirittura impossibili, i risanamenti fiscali da attuare ad opera dei singoli paesi in difficoltà. Di qui i timori di un potenziale di crescita europea destinato a rimanere basso negli scenari del dopo crisi.
La stagione difficile dell’economia europea
Per ripartire simmetricamente tra paesi (in surplus e deficit) gli aggiustamenti richiesti all’interno dell’area dell’euro, è necessario un reale ed efficace coordinamento delle politiche economiche nazionali. Ci sarebbe anche lo strumento per attuarlo: il “Broad Economic Policy Guidelines”, una sorta di schema di concertazione delle politiche economiche dei singoli paesi membri dell’euro. Adeguatamente rafforzato con nuovi incentivi e sanzioni, questo documento potrebbe venire utilizzato anche con una certa rapidità, come non è avvenuto, viceversa, nei primi dieci anni di vita dell’euro.
Nell’ultimo vertice di Bruxelles si è parlato, in effetti, della esigenza di una nuova governance o di un nuovo governo economico (a seconda delle traduzioni) dell’area dell’euro, ma senza specificare, almeno per ora, alcun contenuto. Uno dei maggiori ostacoli è rappresentato dalle attuali posizioni della Germania, il paese oggi indiscutibilmente più forte in Europa. Angela Merkel ha ripetuto che l’unica ricetta da applicare ai paesi in difficoltà è la riduzione dei disavanzi pubblici, da attuare al più presto. A questo riguardo, l’unica vera necessità è rafforzare gli obblighi e le sanzioni all’interno di un rinnovato Patto di Stabilità e Crescita. Fino ad arrivare a prospettare una modifica dei trattati europei per consentire l’espulsione dall’euro di quei paesi che non rispettano per un periodo di tempo prolungato i parametri di finanza pubblica prescritti dagli stessi accordi.
La posizione della Germania, d’altra parte, non fa che riflettere un atteggiamento generalizzato dei singoli paesi membri – del gruppo dell’euro e più in generale dell’Unione europea – caratterizzato da diffuse mediocrità e da gretta chiusura nazionalistica verso gli obiettivi e gli interessi comunitari. Un’Europa delle patrie, per sintetizzare, che ha impiegato mesi per partorire una modesta risposta ad un piccolo problema quale è quello dei debiti della Grecia e che appare ancora meno in grado di formulare una efficace strategia di rilancio a medio termine della sua crescita economica, come nelle ambizioni di “Europa 2020”.
Di Paolo Guerrieri professore ordinario alla ‘Sapienza’ Università di Roma e Vice-presidente dello Iai.