L’Europa dopo il fallimento di Copenhagen
Rispetto agli obiettivi che si era posta di un accordo universale da tradurre a breve in impegni vincolanti, l’Europa non può che essere insoddisfatta dei risultati del vertice dell’Onu sul clima che si è svolto a Copenhagen. Detto questo, è bene che il rammarico per un’occasione in parte persa, che resta comunque una tappa utile e rilevante di un grande processo politico e di trasformazione economica e tecnologica già in atto, non diventi sterile pessimismo; o, ancor peggio, non si traduca in disfattismo e ostacoli o freni alle politiche in corso.
Ruolo chiave dell’Ue
In questo senso va letto il cauto, ma solido, ottimismo che traspare dalle dichiarazioni della cancelliera Angela Merkel, già al lavoro da padrona di casa per il prossimo appuntamento di Bonn, fra sei mesi. O anche quelle del Presidente Sarkozy, come la Merkel molto attento a leggere i lati più positivi di Copenaghen: carattere globale dell’accordo; 30 miliardi di dollari ai paesi poveri entro il 2013 e, probabilmente, 100 miliardi l’anno da qui al 2020; rinnovato consenso a non superare i 2 gradi di aumento della temperatura globale entro il 2050; scambio di dati relativi alle emissioni. E, dopo Bonn, nuovo appuntamento a fine 2010 in Messico per tentare di strappare un accordo vincolante.
C’è davvero stato il famoso G2 tanto caro ai media nostrani in cui l’Ue viene raffigurata come il classico vaso di coccio? Ed è mai possibile che la prima potenza commerciale ed economica, nel cui mercato passano un quarto degli scambi del mondo, capace di definire obiettivi ambiziosi unilaterali già vincolanti ed esprimere la volontà di fare anche di più, sia trattata quasi come una Cenerentola, una comparsa minore? In realtà l’Europa sta pesando molto più di quanto appare, anche se forse errori tattici e di comunicazione sono stati fatti.
Se si va alla sostanza, l’Ue esce da Copenaghen meglio di Cina ed Usa. Le due potenze che si contendono il primato su chi inquina più il mondo appaiono, difatti, politicamente ed industrialmente in ritardo rispetto all’Ue, già spronata da anni dagli impegni di Kyoto e da un “burden sharing” sanzionabile anche con multe agli Stati inadempienti.
Una larga maggioranza dell’opinione pubblica europea è convinta della necessità di ridurre le emissioni e passare a uno sviluppo più sostenibile. E anche l’industria ha cominciato da tempo a muoversi in questa direzione sviluppando tecnologie all’avanguardia e conquistando quote di mercato con prodotti più efficienti e capacità di produrre energia pulita. La stessa Germania, paese a vocazione industriale con forte export, è quella che più ha spinto per target e norme europee avanzate. Non a caso la nuova politica Ue per l’energia e il clima è stata approvata proprio sotto presidenza tedesca al Consiglio europeo di Berlino del marzo 2007.
Salvo qualche eccezione (in Italia, ad esempio) quasi tutta la classe dirigente europea è convinta della necessità di puntare in modo deciso verso un’economia a basso tenore di carbonio e di mantenere la leadership sul fronte della green devolution; anche per ragioni che trascendono il problema del surriscaldamento e legate alla sicurezza di approvvigionamento ed evitare un declino della competitività europea.
I ritardi di Usa e Cina
In questa corsa alla supremazia nella nuova economia verde Cina e Usa sono ancora in parte appesantite da difficoltà e ritardi. Gli Usa scontano la non politica dell’era Bush e forti resistenze interne. La Cina ha ancora bisogno di energia a basso costo (derivante in primo luogo dal carbone) per poter continuare la sua straordinaria crescita. I risultati modesti del vertice riflettono in parte questi limiti interni. Obama, arrivato a Copenaghen con margini di manovra ridottissimi, ha subito comunque ripercussione sulla sua immagine internazionale; e la Cina ha confermato i pregiudizi di chi la vede come poco trasparente e disponibile ad accettare standard ambientali e sociali. E non è detto che il permanere di queste resistenze cinesi non finisca per spingere Europa e Usa a introdurre salvaguardie sul piano del commercio internazionale.
L’Europa è l’unica ad avere un quadro di regole già stabili e vincolanti per sviluppare politiche nazionali e locali, attirare investimenti, promuovere ricerca e sviluppo ( R&S); e definire standard industriali più ambiziosi condizionando l’industria mondiale e avvantaggiando i produttori europei più avanzati sulle green tecnologies.
Al di là dei limiti rilevati, va comunque riconosciuto che Cina e Usa stanno prendendo molto sul serio a livello nazionale il rapporto tra surriscaldamento climatico e sicurezza energetica, facendone un vero e proprio cavallo di battaglia per promuovere la competitività delle loro economie. Lo “U turn” di Obama, già evidente nella campagna presidenziale, sta contribuendo a spostare importanti gruppi d’interessi verso un’economia a più basso tenore di carbonio. Anche se il passaggio al Senato della proposta di legge su clima e energia con target vincolanti e un primo sistema di cap & trade non sarà una passeggiata, specie con l’avvicinarsi delle elezioni di mezzo termine del Congresso del prossimo anno, tradizionalmente difficili per il partito del presidente in carica.
Un impegno di Obama a Copenaghen superiore al taglio del 17% entro il 2020 rispetto al 2005 (- 4% rispetto al 1990) avrebbe reso ancor più ardua l’approvazione della legge. Ma questo non vuol dire che l’America sia ferma o abbia rinunciato a traguardi più ambiziosi. A Obama serve più tempo. Intanto il recovery plan Usa ha nettamente puntato sul rilancio della competitività e dell’occupazione attraverso investimenti verdi (62 miliardi di dollari): auto con minor consumi, rinnovamento del sistema delle reti elettriche, più R&S, maggiori stimoli per rinnovabili ed efficienza energetica. Una politica chiara e determinata che rischia di togliere molti primati del settore all’industria europea.
Anche la Cina non sta a guardare, con ingenti investimenti per promuovere i target di efficienza energetica e le tecnologie per rinnovabili, di cui è già grande esportatore. E una crescente consapevolezza sui rischi ambientali che il paese, più di tanti altri, sta correndo, specie in relazione al rapido deteriorarsi del fragile ecosistema dell’Himalaya.
In Europa massicci investimenti privati e pubblici si stanno mobilitando verso progetti ambiziosi e all’avanguardia come Desertec, il Piano solare per il Mediterraneo, siti di cattura e stoccaggio del carbonio o lo sviluppo e il rinnovamento delle reti che collegano l’Europa al suo interno e con i paesi terzi fornitori. Decine di miliardi di investimenti indispensabili anche per far fronte alla crescente dipendenza energetica.
L’esigenza di una nuova governance globale
Se per il momento la governance mondiale, con l’unica eccezione del modello Ue, è apparsa inadeguata a gestire le nuove sfide del mondo globale, parte dell’economia e dello sviluppo tecnologico si muovono dunque nella giusta direzione. Ma in assenza di politiche adeguate a livello globale, il processo di trasformazione sarà sufficientemente rapido per evitare i disastri economici e sociali legati a surriscaldamento o a speculazione su gas e petrolio?
Nell’attesa, un messaggio chiaro e urgente che deve continuare ad arrivare alla politica è che per fare la rivoluzione verde, affrontarne le sfide e coglierne appieno le opportunità, imprese e consumatori da soli non bastano. A tutti i livelli, europeo, nazionale e locale, i poteri pubblici devono fare la loro parte. Con incentivi e regole chiare che consentano agli investitori di orientarsi e all’industria di sviluppare nuovi standard.
L’Europa sta facendo la sua parte. Con l’approvazione a breve delle nuove direttive sull’eco-edilizia e sull’etichettatura dei prodotti a consumo energetico si va completando un quadro normativo tra i più avanzati al mondo per ridurre l’anidride carbonica anche attraverso la creazione di un sistema di scambio e di aste per produrre energie rinnovabili, catturare e stoccare il carbonio, ridurre le emissioni nei trasporti, promuovere l’efficienza energetica, la sicurezza di approvvigionamento e l’integrazione di un mercato europeo più concorrenziale. E molti Stati e amministrazioni locali stanno attuando normative e politiche che vanno anche al di là dei già ambiziosi traguardi dell’Ue.
Al di là di alcune regioni e comuni virtuosi, L’Italia sembra ancora recalcitrante rispetto ai nuovi obiettivi europei, quasi non fossero già irreversibili e, comunque, parte essenziale di un processo di trasformazione in atto dell’intera economia mondiale. Tanto le imprese sentono l’aria nuova che tira dimostrandosi attente a cogliere le opportunità, tanto invece la politica appare distratta, talvolta quasi infastidita dal doversi occupare di un tema troppe volte considerato “ecologista” e contrapposto ai temi “seri” dell’economia e della crescita.
Speriamo non sia davvero così. Prendere con superficialità e sufficienza quello che è divenuto necessariamente la chiave essenziale per ogni possibile nuovo sviluppo in economie mature e tecnologicamente avanzate sarebbe un grave errore. Le imprese italiane intuiscono che partecipare alla rivoluzione in atto significa scommettere e guardare avanti con grande fiducia nelle proprie capacità. L’augurio è che la politica non le abbandoni, rinunciando, per l’ennesima volta, a puntare sul futuro e sulle straordinarie risorse dell’Italia.
Di: Carlo Corazza direttore dell’Ufficio della Commissione europea di Milano