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Le sfide globali del 2010

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Il primo decennio degli anni 2000 sembra terminare così come è cominciato, con un grave allarme terrorismo. Ma in realtà, alla fine del 2009, la situazione è molto diversa da quella del settembre 2001. Allora un grande attacco, condotto con il dirottamento di quattro aerei di linea, ebbe successo e fece migliaia di morti sul suolo americano, gli ultimi attacchi sono stati molto più modesti e sono falliti.

Allora il terrorismo fondamentalista voleva portare la guerra nel mondo occidentale, oggi moltiplica attentati e morti soprattutto all’interno del mondo islamico. Allora vi fu l’immediata reazione della superpotenza ferita da un attacco di sorpresa, che reagì dichiarando la guerra al terrorismo, spazzando via il regime dei talebani in Afghanistan e poi quello di Saddam Hussein in Iraq. Oggi siamo tutti consapevoli del fatto che il terrorismo non si può combattere solo con gli eserciti e che il problema da affrontare deve trovare soluzioni molto più complesse, politiche, culturali e religiose (oltre che economiche).

Nuove strategie del terrorismo
In questo decennio al-Qaeda ed i suoi imitatori ed alleati sembrano reagire agli eventi allo stesso modo scelto, nel corso dei secoli, da tante comunità o sette eretiche o scismatiche all’interno del mondo islamico, rintanatesi in enclaves più o meno difficili da raggiungere e facili da difendere, per poi da lì tentare le loro fortune a seconda delle evoluzioni del quadro politico e sociale di riferimento.

Dagli alauiti agli hazara, dai drusi agli sciiti duodecimani, passando per gli zoroastriani, i ba’hai, gli armeni e tanti altri, queste comunità, a volte semplicemente religiose, altre volte anche etniche, sono di volta in volta rimaste nei loro deserti o tra le loro montagne, sono scese ad occupare interi quartieri delle maggiori città mediorientali, hanno svolto ruoli politici a volte determinanti o sono state oggetto di dure repressioni e tentativi di assimilazione, ma sono comunque sopravvissute per secoli in una società islamica che, malgrado la sua forza espansionista e la sua carica messianica, ha finito per convivere con questa articolatissima frammentazione.

I nuovi terroristi islamici jihadisti sembrano voler percorrere queste stesse strade, tentando di ricavarsi delle zone franche in aree inospitali come i territori di frontiera del Pakistan con l’Afghanistan, il deserto yemenita, il caos territoriale somalo o le aree più inaccessibili del Sahara, tra Algeria, Mauritania e Mali.

Né è in contrasto con questa realtà territoriale il contemporaneo tentativo di trovare nuovi seguaci e di sfruttare nuove tecnologie di comunicazione e propaganda, come internet, per condurre attacchi contro i loro nemici. Il fatto che trovino qualche seguace tra giovani immigrati in Occidente, anche di seconda o terza generazione, o tra altri giovani islamici educati nelle scuole britanniche, francesi o americane non è una dimostrazione della loro forza (semmai solo della loro determinazione), ma piuttosto di alcune carenze del sistema occidentale e del fatto che sarà sempre e comunque possibile trovare piccolissime minoranze di disadattati facilmente influenzabili o di aspiranti martiri rivoluzionari.

I buchi neri del mondo globalizzato
In realtà le guerre non si moltiplicano (anzi, dalla fine della Guerra Fredda, nel 1989, esse sono sostanzialmente diminuite di numero) e i famosi “buchi neri”, le aree di ingovernabilità e instabilità, pur continuando ad esistere, sembrano rimanere sempre più o meno gli stessi, così come i famosi “stati canaglia” o problematici che dir si voglia. Semmai qualche dubbio comincia a circolare sulla efficacia delle strategie tentate per cercare di condizionare, controllare e circoscrivere queste aree di crisi, siano esse di tipo militare, economico o politico. Al ripetuto fallimento sperimentato in Somalia si aggiunge oggi il continuo mancato successo (non ancora un fallimento, ma il pericolo c’è) in Afghanistan e la possibilità di una nuova crisi nello Yemen. Siamo evidentemente alla periferia della nuova società globale, ma è una periferia dove si annidano forze criminali che cercano di sfruttare tutti gli interstizi lasciati aperti dalla società globalizzata per colpirla in modo sanguinoso.

Il problema dei prossimi anni non è quindi solo la lotta al terrorismo, ma il rafforzamento della capacità di governo della società globale: si tratta cioè della necessità di chiudere parte almeno di quegli spazi di non governo o di anarchia che alimentano ogni tipo di criminalità, inclusa quella del terrorismo internazionale.

Luci e ombre nei rapporti tra le grandi potenze
Una migliore governabilità della società globale richiede infatti, in primo luogo, un più alto tasso di collaborazione tra le maggiori potenze. In campo economico ciò dipenderà probabilmente dal successo o dall’insuccesso dei programmi abbozzati, ma sinora anche non attuati, dai vari vertici G8 e G20. In campo politico invece dipenderà in primo luogo dalla capacità degli Stati Uniti, della Russia e della Cina di riprendere le fila di un discorso comune di sicurezza. Esistono ovviamente importanti segnali positivi, tra Mosca, Pechino e Washington, ma si tratta per lo più di un complesso di rapporti bilaterali, e non multilaterali o trilaterali, aperti quindi al rischio di molteplici rivalità o incomprensioni reciproche.

Rimangono inoltre vastissime aree di ambiguità. Tra Usa e Cina, ad esempio, oltre alla questione “sospesa” di Taiwan, rimane poco chiaro se sia possibile una visione comune sul futuro degli equilibri in Asia e nella regione del Pacifico, e sul ruolo che vi dovranno giocare potenze come la Corea (riunificata?), il Giappone o l’India. Con la Russia rimangono aperte molteplici questioni, dal Medio Oriente (quale politica verso l’Iran?) al nodo strategicamente centrale della collocazione che dovrà avere Mosca in Europa. Mentre tra Cina e Russia rimane aperta la questione del futuro dell’Asia centrale e della Siberia. Eppure, se non si riuscirà ad avviare seriamente un tale dialogo multilaterale, sarà anche impossibile parlare di nuova e più salda governabilità internazionale e di maggiore sicurezza e stabilità della società globale.

Il ruolo indispensabile dell’Europa
In tutto questo un pensiero dovrebbe andare anche all’Europa. Essa è stata in larga misura protagonista della crescita economica e commerciale che ha portato alla società globale e ha contribuito in modo determinante alla fine della guerra fredda. Oggi è materialmente il maggiore alleato degli Stati Uniti, il pilastro essenziale delle strategie di stabilizzazione e gestione delle crisi e l’interlocutore inevitabile sia della Russia che del nuovo Medio Oriente e dell’Africa. Eppure non sembra ancora in grado di esprimere una sua identità e un suo progetto di ordine internazionale. Questa debolezza pesa gravemente sia sulle prospettive della società globale che sulla stessa sicurezza e forse sulla futura prosperità dell’Europa. Vedremo nel 2010 se potremo scorgere il delinearsi di segnali più positivi.

Di Stefano Silvestri presidente dello Iai e direttore di AffarInternazionali.

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