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Le pensioni dopo la crisi finanziaria

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La recente crisi finanziaria ha messo in discussione due dei cardini su cui si sono basate le riforme previdenziali degli ultimi quindici anni in Europa: la fiducia nelle capacità dei mercati finanziari di autoregolarsi e di generare, almeno nel lungo periodo, rendimenti superiori al tasso di crescita dell’economia reale; la fiducia nelle capacità dei singoli di effettuare scelte di risparmio sensate e lungimiranti, nonché di comprendere e fronteggiare i molteplici rischi connessi con l’accumulazione di risorse per l’età anziana, e di assumersene la responsabilità. La fiducia nei mercati ha sorretto la costruzione del sistema misto, finanziato in parte a ripartizione e in parte a capitalizzazione, e permesso la diversificazione del risparmio pensionistico. La fiducia nei singoli ha sostenuto il trasferimento di rischi e di responsabilità dallo Stato, o dalle imprese, verso i singoli lavoratori (famiglie).

Quanto giustificato è il ripensamento che la crisi introduce nei confronti del disegno previdenziale – in particolare del sistema misto – configurato dalle riforme? La crisi avvalora le critiche mosse dai detrattori della previdenza privata? In realtà, la crisi non rappresenta infatti il fallimento del progetto del sistema misto, ma piuttosto è frutto di errori di “implementazione” dello stesso. Tale sistema – concepito negli anni ’90 per l’esigenza di fronteggiare in modo efficace l’invecchiamento della popolazione – permette una migliore diversificazione del rischio, combinando il tasso stabile, ma piuttosto basso, del pilastro pubblico con quello solitamente più alto, ma anche più volatile, del pilastro privato. Essendo i rischi connessi ai due pilastri poco correlati, l’integrazione fra pubblico e privato permette, se non l’eliminazione, l’attenuazione del rischio complessivo.
Abbandonare il sistema multipilastro sull’onda delle delusioni provocate dalla crisi finanziaria si rivelerebbe quindi un grave errore. Anzi, è proprio dalla consapevolezza dei limiti di entrambi i pilastri e dalla ricerca di regole e comportamenti che ne migliorino il funzionamento che si rafforzano le ragioni per l’integrazione tra un (fondamentale) pilastro pubblico e un (significativo) pilastro privato. Naturalmente, per integrarsi bene, le due componenti debbono essere entrambe ben disegnate e funzionare in modo coerente. Ciò richiede che la previdenza pubblica applichi regole pensionistiche sostenibili e che quella privata sia caratterizzata da un elevato grado di trasparenza, professionalità, competizione e buona supervisione, dal lato dell’offerta, e da buona informazione e da un minimo di familiarità con i concetti e le grandezze della finanza, dal lato della domanda. In tal modo i singoli (lavoratori/famiglie) possono essere posti in grado di assumere, in modo adeguato e consapevole, se non ottimale, le loro decisioni relative all’accumulazione di risparmio per l’età anziana. Ne conseguono linee di intervento che, pur non lasciando immune la previdenza pubblica, riguardano soprattutto la preparazione delle famiglie e il comportamento del mercato.

Dal lato del sistema pubblico, per quanto riguarda il nostro paese va preservato e rafforzato il metodo contributivo adottato nel 1995, e anzi sarebbe opportuno accelerarne l’entrata in vigore, visto che il passo troppo lento della riforma fa sì che soltanto a partire dal 2014-2015 cominceranno a essere liquidate pensioni con una componente contributiva. Dal lato delle famiglie, la politica dovrebbe incoraggiare la preparazione degli individui  con misure rivolte soprattutto alle fasce più deboli. In questo ambito si collocano i programmi di educazione finanziaria, la supervisione dell’attività di informazione, la definizione accurata delle opzioni di default insite nelle scelte finanziarie complesse, le categorie meno fortunate.
Se la formazione è importante per i giovani, per gli anziani è essenziale la disponibilità di rendite il più possibile economiche, semplici e sicure, così da incoraggiare l’assicurazione contro il rischio idiosincratico di longevità. In questo caso, occorre sviluppare e rendere più appetibili prodotti, quali il prestito vitalizio ipotecario (reverse mortgage), per rendere maggiormente liquido il valore dell’abitazione che di solito rappresenta la parte di gran lunga preponderante del patrimonio degli anziani.

Per quanto riguarda il mercato, è anzitutto importante distinguere le risposte immediate da quelle di medio-lungo termine. Quando le perdite dei mercati finanziari intaccano una parte sostanziale del capitale accumulato di lavoratori prossimi alla pensione, con prospettive di decurtazioni di qualche decina di punti percentuali dei benefici, la risposta non può che essere un temporaneo aiuto pubblico. Nel medio termine, mentre sarà necessaria una maggiore attenzione alla copertura dei rischi da parte delle imprese con piani a beneficio definito – magari attraverso un ridimensionamento della componente azionaria, vista la cospicua presenza di rischi salariali e la ricerca di soluzioni al rischio aggregato di longevità- è verosimile pensare che la crisi accelererà la transizione verso i piani a contributo definito.
Al di là dei miglioramenti possibili nelle tecniche di gestione dei portafogli dei fondi pensione – asset management – esiste il problema sociale di fornire le necessarie garanzie di rendimento ai lavoratori. La teoria finanziaria suggerisce che gli assicuratori non possono garantire rendimenti più alti del tasso senza rischio, a meno che non siano pronti ad assumere rischi maggiori rispetto a quelli degli altri investitori. Un ruolo di garante con un’assunzione di rischio maggiore potrebbe essere svolto invece dallo Stato, che potrebbe assumersi rischi macroeconomici e operare tramite meccanismi – come la distribuzione intergenerazionale del rischio – che non sono disponibili sul mercato. Garanzie sui rendimenti sono quindi possibili. Tuttavia, per un verso, esse sono sempre imperfette (raramente si offrono garanzie che vanno oltre il tasso nominale di rendimento) e, per altro verso, mai gratuite, sia che le offra il mercato (nel qual caso il loro costo abbassa il rendimento netto) sia che vengano dallo Stato, nel qual caso l’onere è addossato ai contribuenti.
In ogni caso, mentre la crisi è causa di malessere profondo per famiglie, gestori e responsabili della politica economica (non meno che per gli studiosi), essa è al tempo stesso fonte di nuove sfide e di opportunità, che sarebbero perse se dovesse prevalere un semplice ripiegamento sui passati modelli di welfare e sull’idea di un facile ritorno sotto l’ombrello protettivo dello Stato.

Di: Elsa Fornero (Università di Torino)