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La ricetta anti-crisi: innovare e internazionalizzare

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La crisi globale in corso ha causato, oltre ad ingenti danni in termini economici ed occupazionali, anche un ripensamento generale delle linee di sviluppo adottate sino al tardo 2008. Il sistema produttivo italiano, ad esempio, deve affrontare alcune zone d’ombra che minacciano di ostacolare la sua ripresa, proprio nel momento in cui la crisi pare aver allentato la morsa, strappando un sorriso ad imprenditori e consumatori. La scarsa propensione delle imprese italiane all’internazionalizzazione rappresenta una criticità cui le istituzioni devono porre rimedio, sensibilizzando le aziende sui benefici sicuri del processo di commercializzazione all’estero dei propri prodotti, nonché coadiuvandole mediante l’impiego della rete diplomatica e con le missioni congiunte.

Certo, la natura stessa del sistema produttivo italiano non agevola l’opera di penetrazione sui mercati esteri, in particolar modo quelli più distanti e meno conosciuti. Milioni di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, connotate dall’alta qualità dei prodotti, dall’impiego di materiali sicuri e dall’appartenenza a quei distretti produttivi, hanno reso il capitalismo della Penisola celebre nel mondo intero, con vari tentativi d’imitazione ai quattro angoli del globo. Eppure, questo tessuto dinamico e malleabile, lesto nell’adattarsi alle necessità del periodo di crisi, difetta degli strumenti adeguati per fronteggiare la concorrenza spietata dei Paesi emergenti. La duttilità delle PMI si è rivelata un utile alleato nel momento in cui, al contrario, la grande azienda, visti ridotti i propri margini di profitto, non può che imboccare la strada dei tagli di produzione e di personale: sembra se ne sia accorto anche l’inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, deciso a rimodellare la politica industriale francese, concedendo un po’ d’attenzione alle piccole imprese, eclissate negli anni dalla centralità della grande industria. La duttilità ed il capitale umano da soli però non sono sufficienti a garantire la competitività sui mercati internazionali: l’internazionalizzazione è un percorso irto di difficoltà, che necessita di aggregazioni, almeno in alcune fasi della filiera produttiva, e di alta propensione all’innovazione.

Proprio l’innovazione costituisce il grimaldello capace di scardinare le barriere di una competizione commerciale in cui ai produttori di altri Paesi spettano gli indubbi vantaggi di manodopera a basso costo, legislazioni ambientali meno restrittive, fiscalità agevolata. Il Politecnico di Milano calcola che solo una ristretta porzione delle imprese sia incline all’innovazione. Più del 60% delle stesse, infatti, non percepisce i vantaggi di questa scelta: è il segmento di aziende che i ricercatori definiscono “inerti”, composto in prevalenza da soggetti che non hanno ancora sperimentato la pressione della concorrenza internazionale. Altri, al contrario, sono consapevoli delle opportunità derivanti da miglioramenti di prodotto o di processo, ma non sono attrezzati per sostenerli, vuoi per mancanza di capitali, vuoi per l’assenza di connessioni col mondo della ricerca (è, questa, la categoria delle “aspiranti”).

La “distruzione creativa”, che secondo Schumpeter è in grado di sparigliare i cicli economici tradizionali, si manifesta oggi come un imperativo per le imprese italiane, attrici di un palcoscenico più vasto di quello nazionale, in cui si contendono la parte con i nuovi, agguerriti protagonisti della scena economica globale. Perché un’impresa di dimensioni ridotte possa intraprendere un progetto di internazionalizzazione l’aggregazione risulta la scelta più idonea: riduzione dei costi, economie di scala, conoscenze messe in comune e creazione di reti congiunte attribuiscono ai partecipanti un beneficio altrimenti irraggiungibile. Un caso virtuoso di aggregazione è stato evidenziato dal Corriere (2 febbraio 2010): i Men at Work del lecchese, aziende che hanno saputo condividere parti del processo produttivo e di commercializzazione, accantonando particolarismi e rivalità. Ma anche le istituzioni si rendono conto delle difficoltà, ed incentivano le associazioni, anche temporanee, tra le imprese, promuovendo inoltre le sinergie tra queste ultime e le realtà del mondo della ricerca.

Nel momento in cui centinaia di milioni di nuovi consumatori si affacciano sul mercato, intercettarne la domanda di beni e servizi è una priorità che non può essere procrastinata. Sino ad ora, l’internazionalizzazione è stata vissuta solo in chiave macroindustriale, nei settori delle infrastrutture e dell’energia, con risultati incoraggianti. Un passo ulteriore può però essere compiuto in direzione della promozione dei prodotti italiani, appartenenti a comparti più eterogenei e variegati, per raggiungere quella nuova classe media globale che va delineandosi nei Bric, e non solo. Le piccole e medie imprese italiane, attualmente, restano ai margini dell’agone, relegate al rango di competitor di secondo piano. Se la stretta creditizia si attenuerà e le imprese avranno modo di svilupparsi, attraverso l’innovazione e le aggregazioni, la sfida dei mercati esteri non sarà più così ostica: a quel punto, dalla domanda estera ripartirà la produzione italiana.

Di Framcesco Tayani (Geopolitica)

 

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