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La faticosa ricostruzione della finanza mondiale

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Sotto la regia del G20, il Financial Stability Board ha ricevuto il mandato di ridefinire l’architettura per un mondo finanziario più sicuro. Nelle parole del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, quest’opera si realizza rafforzando gli standard di capitale e di liquidità delle banche, riducendo l’azzardo morale posto da istituzioni finanziarie sistemicamente importanti, strutturando i mercati per i derivati Otc (over the counter), potenziando gli incentivi e la trasparenza. Un’opera ciclopica, che per gli aspetti più sensibili dovrà essere attuata in ogni paese o territorio, per evitare il fiorire di off shore centre e soprattutto di arbitraggi regolamentari. D’altra parte, senza uniformità nelle regole e sorveglianza nell’applicazione, diventa elevato il rischio che, per l’impossibilità di governarla, la globalizzazione si frantumi nuovamente.

Frustrazione crescente
Sebbene la nuova legislazione finanziaria americana (oltre 2.300 pagine) sia arrivata in porto, è diffusa la sensazione che si sia fortemente affievolita la voglia di riforme chiare. Negli Stati Uniti occorrerà completare una quarantina di studi e le autorità di vigilanza aumenteranno da 115 a 127. In Europa non si è andati al di là di nuove regole per le società di revisione e per i bonus a favore della dirigenza bancaria, mentre si protrae il tiro alla fune tra Parlamento e Consiglio sulla struttura e sui poteri della vigilanza a livello comunitario.

Eppure quando la crisi scoppiò le autorità monetarie e fiscali al di qua e al di là dell’Oceano intervennero con terapie intensive per salvare da sicuro fallimento importanti intermediari finanziari e non lesinarono medicine per rianimare produzione e occupazione. Queste misure sono state, nel complesso, tempestive ed efficaci. Come mai, allora, prevale oggi un senso di delusione per l’azione sin qui svolta, quasi di scetticismo per quella a venire? Credo per due ragioni fondamentali: a) per non avere minimamente affrontato le ragioni dei persistenti squilibri macroeconomici, causa prima degli eccessi finanziari; b) per avere intrapreso una faticosa opera di ricostruzione del governo finanziario la cui definizione richiederà altro tempo, la cui implementazione dipenderà dal rianimarsi della congiuntura, la cui traduzione in norme cogenti a carattere internazionale prima e nazionali dopo esigerà il concorso di quasi tutti i Governi e i Parlamenti del globo terracqueo.

Squilibri strutturali
Gli squilibri macroeconomici tradizionali vedono gli Stati Uniti, in forte disavanzo di bilancia dei pagamenti, comportarsi come consumatore di ultima istanza nell’assorbire la produzione eccedentaria di Cina, Giappone e altri paesi, che a loro volta fanno segnare strutturali avanzi sull’estero. A questa situazione non ha portato rimedio il sistema dei cambi, abbandonato alla libera determinazione degli stati e da alcuni utilizzato come strumento protezionistico. Sul fronte del commercio si assiste a un’invisibile erosione del libero commercio, mentre i negoziati di Doha sono in catalessi.

A questi scompensi ormai cronici si è aggiunto per la maggior parte dei paesi occidentali un’accelerata accumulazione di debito pubblico per il salvataggio della finanza e dell’economia. L’anchilosi che esso genera nei pubblici bilanci fa temere maggiori livelli di tassazione, minori investimenti pubblici, forse un’elevata inflazione se si generalizza il convincimento che la situazione non è sostenibile nel lungo periodo. I tentativi in atto di riportare bilancio e debito pubblico sui binari dell’ortodossia rischiano, però, di indebolire la fragile ripresa in atto.

Rischio annacquamento
Con riferimento alla strategia per la ricostruzione del governo finanziario è mia convinzione che la strada intrapresa, lunga e impervia, dovrà fare affidamento su una vigilanza particolarmente attenta, severa e coordinata, se si vorranno evitare progressivi annacquamenti per l’azione delle lobby e per la concorrenza tra autorità di regolazione.

I “fallimenti” che hanno concorso alla crisi sono stati dovuti non alla mancanza di regole, ma di adeguata sorveglianza. Sarebbe stato preferibile seguire la strada degli interventi chirurgici, come quelli che si ebbero negli Stati Uniti all’epoca del New Deal con il Glass-Steagall Act che separò le banche ordinarie da quelle di investimento e, su un piano diverso, anche in Italia con la distinzione tra aziende di credito e istituti speciali decretata dalla riforma del 1936. Dalla fine del 2008 mi sono dichiarato a favore di forme di segmentazione con riferimento a categorie di intermediari, di operazioni, di clientela. Rispetto a una regolamentazione integralmente prudenziale, una almeno in parte strutturale è più rapida da definire, più semplice da amministrare, più idonea a evitare o minimizzare il “contagio” tra un segmento e l’altro, più sorvegliabile al livello internazionale. Anch’essa richiede ovviamente l’impegno e la collaborazione di governi e parlamenti, nonché il coordinamento tra gli stati.

Un esempio? La Volcker rule. Proposta dall’ex presidente della Fed e accettata dal Presidente Obama proibiva a una banca o all’istituzione che la controlla di fare trading su titoli se non per conto della clientela, di possedere o investire in hedge e in private equity fund, di limitare la dimensione del passivo delle più grandi banche. L’opposizione dell’industria finanziaria ha portato a un forte annacquamento dell’iniziale proposta, con grande disappunto dello stesso Volcker.

Di Mario Sarcinelli Presidente di Dexia Crediop.