La battaglia europea sugli Ogm
La coltivazione di organismi geneticamente modificati (Ogm) è sempre più diffusa a livello globale. Nel 2008 la sua estensione arrivava a 125 milioni di ettari (+20% sul 2006): per metà negli Stati Uniti, seguiti da Argentina, Brasile, India e Canada. Tuttavia l’Unione europea, uno dei principali produttori agricoli al mondo, rimane ai margini di questo processo perché una decennale battaglia interna tra favorevoli e contrari impedisce l’adozione di una legislazione chiara ed esaustiva. La nuova Commissione Barroso ha l’occasione di trovare un compromesso che consenta di uscire dallo stallo attuale.
Barriere. La coltivazione e la lavorazione degli Ogm all’interno dell’Unione europea sono in effetti teoricamente possibili, ma la procedura di autorizzazione che la disciplina sembra avere l’obiettivo di ostacolarle. La crescente impopolarità di questo tipo di piantagioni ha corretto l’apertura originaria, contenuta in una direttiva del 1990, che introduceva 17 diversi tipi di Ogm. Dal 1997 in poi molti stati, guidati dalla Francia, si sono opposti a ogni nuova autorizzazione dando vita a una moratoria di fatto durata fino all’entrata in vigore della nuova procedura di approvazione degli Ogm, presente nella direttiva 2001/18, basata sul principio di precauzione.
Questa procedura-gymkana stabilisce che l’introduzione – coltivazione, importazione o uso – di un nuovo Ogm in uno stato membro debba essere autorizzata da un ente nazionale e dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa). Ogni altro stato membro dell’Ue ha la facoltà di contestare l’eventuale permesso concesso, rinviando la decisione al Consiglio dei Ministri, che delibererà dopo aver sentito il parere di un ulteriore comitato scientifico. In mancanza di una maggioranza qualificata, la decisione definitiva spetta alla Commissione. In ogni caso, qualsiasi paese può ancora appellarsi alla “clausola di salvaguardia” e proibire la coltivazione, l’importazione o l’uso di quell’Ogm nel proprio territorio. Le autorizzazioni sono temporanee e il loro rinnovo comporta la ripetizione della procedura. Non meraviglia dunque che l’Unione europea ad oggi consenta la coltivazione di una sola pianta geneticamente modificata, il famoso mais M810 prodotto da Monsanto: l’azione degli oppositori ha potuto essere efficace. I permessi di importazione o uso sono invece stati concessi più generosamente.
Guerra di posizione. La scadenza dell’autorizzazione del mais M810 e il contemporaneo insediamento della nuova Commissione europea hanno riacceso lo scontro. Tra i favorevoli si contano lo stesso presidente Barroso e stati come Regno Unito, Olanda e Svezia, tradizionalmente forti nella ricerca biotecnologica e liberali nella sua applicazione pratica; il fronte dei contrari vede come protagoniste Francia e Austria, tra le prime ad avvalersi della clausola di salvaguardia e sicuramente interessate a proteggere il loro florido settore agricolo, imitate poi da Grecia e Ungheria e infine (luglio 2009) da Germania e Lussemburgo. Italia e Polonia applicano invece una proibizione “di fatto”. Questi stati contestano gli studi dell’Efsa come incompleti e ancora prematuri. La Spagna, che concentra il 75% della produzione europea, non può a sua volta essere annoverata tra i favorevoli per il suo allineamento alle posizioni francesi in materia di agricoltura.
La decisione su mais M810 e altri Ogm come la patata Amflora ha una forte valenza simbolica per quanto riguarda la futura politica alimentare europea. L’atteggiamento della Ue è stato criticato a livello internazionale: nel 2003 Stati Uniti, Argentina e Canada lo hanno denunciato al Wto, che ha stabilito che la Ue deve adottare una legislazione definitiva nel più breve tempo possibile. Durante il suo primo mandato Barroso ha cercato più volte di forzare il veto degli stati a una liberalizzazione degli Ogm: la normativa comunitaria consentirebbe alla Commissione europea di annullare il ricorso alla clausola di salvaguardia in caso di evidenze scientifiche contrarie.
Ma ogni tentativo in questo senso è stato annullato dal Consiglio dei Ministri dell’Ambiente, che ha già votato quattro volte a favore del principio secondo cui un membro dell’Unione europea ha il diritto di proibire la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul proprio territorio; in occasione dell’ultimo voto (marzo 2009) solo i tre stati di cui sopra si sono dichiarati apertamente pro-Ogm, e ventidue contro.
Bisogna invece sottolineare che, al contrario di ciò che è successo per i permessi di coltivazione, le licenze all’importazione e lavorazione industriale degli Ogm autorizzate dall’Efta non sono state messe in discussione: finora hanno avuto il via libera una trentina di elementi, soprattutto semi di mais, colza e soia prodotti da Monsanto, Bayer, Pioneer e Syngenta, destinati all’alimentazione animale o umana. Nei fatti dunque, se la coltivazione diretta è stata ostacolata in ogni modo, il mercato europeo è stato e continua ad essere aperto ai prodotti agricoli geneticamente modificati.
La strategia di Barroso. Un accordo di carattere generale, che ponga fine all’incoerenza tra coltivazioni vietate e importazione e lavorazione consentite, è stato finora irrangiungibile. Barroso è preoccupato di riequilibrare la bilancia commerciale (l’acquisto extra-Ue di Ogm non coltivabili pesa negativamente per 50 milioni di euro) e sviluppare la ricerca scientifica europea nel campo, che ha sofferto un calo consistente nell’ultimo decennio; inoltre deve affrontare una minaccia di sanzioni commerciali da parte degli Stati Uniti in caso di inazione. Il rinnovo della Commissione gli fornisce un’occasione per regolare il comportamento dell’Unione europea, con l’obiettivo di “creare un mercato unico delle biotecnologie compatibile con la protezione della salute e dell’ambiente”.
In primo luogo, Barroso ha intenzione di accelerare l’estenuante processo di autorizzazione degli Ogm: è da leggere in questa ottica il provvedimento che ha trasferito la delega alle biotecnologie dalla DG Ambiente alla DG Salute, retta dal maltese John Dalli. Negli anni passati il Commissario all’Ambiente Stavros Dimas è stato una vera spina nel fianco del fronte pro-Ogm, e parallelamente il voto del Consiglio dei Ministri dell’Ambiente ha sempre tenuto conto dell’orientamento dell’opinione pubblica europea, decisamente contraria. Barroso crede che, occupandosene i ministri della Salute, il dossier potrà “raffreddarsi” e acquisire una connotazione meno politica e più scientifica che faciliti il raggiungimento del suo scopo. Il secondo atto della strategia di Barroso consiste infatti nella stesura di una nuova direttiva, che poggerebbe su due pilastri: una procedura morbida per l’autorizzazione degli Ogm, che soddisfi le richieste dei favorevoli, e ampia libertà di applicazione per i singoli stati, fino alla facoltà di dichiararsi totalmente “Ogm free”: una concessione necessaria, senza la quale il provvedimento non potrebbe superare la contrarietà della maggior parte dei paesi membri e del Parlamento europeo.
Uscire dal compromesso al ribasso. L’adozione di una tale direttiva sarebbe però tutt’altro che auspicabile. Priverebbe di senso il sistema di controllo e di garanzie che distingue qualitativamente il mercato alimentare europeo da quello del resto del mondo. E soprattutto, grazie all’escamotage della fissazione di regole molto liberali, la Commissione rinuncerebbe al proprio ruolo di motore normativo comunitario perché delegherebbe la regolamentazione del settore nella sua interezza ai singoli paesi: ogni stato sarebbe libero di muoversi come crede all’interno di limiti più che blandi, che renderebbero possibile l’adozione di normative nazionali variabili dall’autorizzazione in blocco al rifiuto totale.
Ci troveremmo così davanti non al mercato unico delle biotecnologie, frutto di una politica comune in tema di alimentazione e salute, ma a ventisette legislazioni differenti che creeranno diseguaglianze tra i cittadini europei e incoerenze coi principi stabiliti nei Trattati. Questo metodo, già applicato spesso negli anni scorsi in diversi campi della politica europea, è il sintomo di una Commissione più debole che mai, che restituisce agli stati una sovranità che non riesce a esercitare.
Nell’impossibilità di giungere a una posizione comune, una soluzione positiva potrebbe passare invece per lo strumento della cooperazione rafforzata, su iniziativa di un gruppo di paesi, che scelga di darsi regole più vincolanti in materia di Ogm. Uno sforzo che suppone una chiara volontà politica, ma che avrebbe il merito di superare il sistema fortemente diseguale che scaturirebbe dalla direttiva così com’è pensata oggi, nonché le contraddizioni della situazione attuale.
Di Riccardo Pennisi, dottore magistrale in Studi europei, Università di Firenze. (Affariinternazionali)