Il suicidio mediatico d’Israele
Una decina di morti. La terza intifada più vicina. Il resto del mondo più lontano che mai. Nella lunga e fallimentare guerra mediatica, quella subita da Israele in alto mare è la madre di tutte le sconfitte, una Waterloo che lascia pesanti detriti diplomatici e fa impennare i rischi per la sua sicurezza.
Quella che faceva rotta su Gaza non è una “Flotilla” di pacifisti – sostiene il governo israeliano – ma «un’Armada dell’odio». E non ha tutti i torti. Basti pensare che il “Free Gaza Movement” ha risposto picche al padre di Gilad Shalit – il militare israeliano prigioniero nella Striscia da quattro anni – che aveva chiesto loro di premere su Hamas affinché «permetta al soldato di ricevere lettere e pacchi dalla famiglia». L’imputazione di «sostenitori del terrorismo» rivolta da Gerusalemme all’Ong turca protagonista della battaglia in alto mare è tutta da provare, ma si tratta certo di islamisti della galassia dei Fratelli Musulmani, simpatizzanti di Hamas. E non è da escludere – ma di nuovo, rimane da dimostrare – che abbiano risposto con estrema violenza all’incursione israeliana, fino a tentare di linciare i soldati.
La provocazione c’è stata da parte dei pacifisti sui generis del Free Gaza Movement. Ma era – e da tempo – talmente evidente che ci si domanda come Israele sia potuta cadere così rovinosamente nella trappola. Dal punto di vista militare, se le accuse del governo di Gerusalemme sono attendibili, le colpe d’Israele non ricadono solo su un Commando che ha peccato di “eccesso di legittima difesa”, una sorta di caso Placanica all’ennesima potenza. La minaccia evidentemente è stata sottovalutata. La pianificazione del raid è stata un disastro: un piccolo gruppo di soldati calati da una corda non è sufficiente per prendere il controllo di una spedizione infiltrata da presunti “terroristi”. E se avevano armi, possibile che l’intelligence non ne sapesse nulla?
Mediaticamente, nulla di nuovo. Israele continua ad avere pessimi spin doctor. La strage di attivisti che tentano di portare aiuti umanitari a Gaza è un’immagine da incubo, una caricatura dei peggiori stereotipi negativi su Israele che rimarrà incollata per anni allo Stato ebraico. E la tempesta in arrivo si vedeva da lontano. Gerusalemme ha fatto poco o nulla per evitarla, ad esempio sfidare le ambiguità della Turchia chiedendole collaborazione. Ma dal punto di vista della sicurezza, sarebbe stato comunque meglio far attraccare la “Freedom Flotilla” indisturbata a Gaza. Ed è questo il nocciolo politico-militare della questione.
Israele ha difeso lo stato d’assedio a Gaza, più che la propria sicurezza. Gerusalemme afferma che non c’è una crisi umanitaria, perché ogni settimana nella Striscia entrano 15.000 tonnellate di aiuti. Secondo le Nazioni Unite, però, è meno di un quarto di quanto sarebbe necessario, oltre che insufficiente qualitativamente, perche i beni vietati sono troppi. Al netto delle effettiva gravità della crisi in termini umanitari, l’emergenza politica e militare Gaza rimane congelata, sigillata ma irrisolta, tre anni dopo l’avvento di Hamas al potere. Davvero l’assedio è il modo miglior per garantire la sicurezza d’Israele? Aspettando cosa?
Non deve rispondere solo Israele. La domanda va posta anche alla comunità internazionale, che ha preferito rimuovere Gaza dalle sue road map. Servirebbe collaborazione. E una svolta netta a Gerusalemme. Ma il governo di Netanyahu da ieri è più solo e arroccato che mai. I rapporti con la Turchia, per decenni l’unico alleato strategico nella regione mediorientale, sono sull’orlo della rottura totale. E su richiesta di Ankara si è riunito ieri il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e si riuniranno domani i partner della Nato. Netta è anche la condanna dell’Europa dei 27 che chiede «un’inchiesta piena, immediata, imparziale».
La vera incognita è americana. Nelle ultime settimane, la crisi diplomatica senza precedenti tra Usa e Israele sembrava destinata a risolversi. Il braccio di ferro sugli insediamenti si è ammorbidito. Washington inoltre ha preso le distanze dal documento finale della Conferenza di Non-Proliferazione che ha chiesto un Medio Oriente “nuclear-free” portando Israele sul banco degli imputati. Obama avrebbe garantito a Netanyahu che gli Usa difenderanno e anzi aumenteranno le potenzialità strategiche e di deterrenza dello Stato ebraico.
Il premier israeliano era atteso alla Casa Bianca, anche per discutere un “upgrading” delle relazioni. Netanyahu, che si trovava ieri in Canada, ha prima confermato poi annullato l’incontro. Ufficialmente la cancellazione è israeliana, Washington ne ha solo preso atto. Ma Obama «prima possibile» e comunque prima di pronunciarsi vuole conoscere bene le circostanze del disastro.
Dopo il «rammarico» espresso da Netanyahu e in attesa magari anche di un ponderato «mea culpa» è da lì innanzitutto – dal rapporto tra Stati Uniti e Israele, dalla pressione e dalle garanzie che può mettere Obama sul tavolo – che si dovrà ripartire per provare a uscire da questo disastro.
Di Luigi Spinola (Il Riformista)