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Il sindacato ripensi il proprio destino

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La “questione” sindacale, dopo un periodo di annoiato tran tran, torna al centro del dibattito politico. La polemica scoppiata ieri con la relazione congressuale del Segretario generale della Cgil e la risposta del presidente del consiglio non è un fulmine a ciel sereno, ma un temporale che covava da tempo. Le interpretazioni che attribuiscono alle posizioni di Renzi un puro calcolo elettorale e a quelle confederali la mera difesa di uno sbiadito potere (vedi ad esempio il dimezzamento dei permessi sindacali previsto dalla riforma della P.A.), non colgono l’essenza del problema.

 

Così come non lo fanno le sofisticate letture, tutt’ora presenti nei commentatori, su una persistente cinghia di trasmissione a rovescio che farebbe del Pd (prima che arrivasse Renzi tutto il partito, ora tutta la minoranza!) il braccio parlamentare della Cgil. Il problema che sta dietro le polemiche è ben più serio.

 

La composizione sociale vive una estrema frantumazione, conseguente ai mutamenti profondi («antropologici» è stato detto!) del lavoro, della sua natura, delle sue forme, della sua rappresentanza. Disoccupazione e precariato giovanile, lavoro autonomo e professioni, imprenditoria diffusa, ma non sufficientemente accolta e supportata, caratterizzano una parte rilevante della realtà italiana di oggi.

 

Che, dunque, un popolo di non, o scarsamente, rappresentati direttamente nei loro interessi economici e nei diritti, in più affaticato dalla crisi, ma cruciale per l’economia, si distacchi da una rappresentanza sindacale, che appare ancora prevalentemente e saldamente ancorata al lavoro dipendente stabile e ai pensionati, è comprensibile. Le conseguenze non sono solo sociali, ma direttamente politiche, poiché tutto questo mondo costituisce una parte sempre più significativa del corpo elettorale e il consenso ne risente. Peraltro, come è ormai dimostrato da anni, la diaspora politica attraversa ampiamente la componente storica del mondo del lavoro operaio ed impiegatizio.

 

Ne sanno qualcosa la sinistra e la Lega che ne hanno rispettivamente pagato il prezzo e beneficiato, per anni. Che, dunque, si possa pensare che, in questo contesto, si ottengono più voti prendendo le distanze dal sindacato piuttosto che a corteggiarlo è plausibile. Tanto più se la rappresentazione: governo innovatore-sindacato conservatore trova un qualche fondamento.

 

La offerta politica che Renzi offre agli italiani è esplicita: rinnovare in profondità! C’è n’è per tutti; per la politica, in primis, per le burocrazie, per il sociale. Questa offerta ha la forza della necessità e non ammette zone franche. La domanda che tutti si debbono porre, anche il sindacato, è, allora, quale parte si ha in questo processo. La risposta, ormai, prescinde da chi pone la domanda, ma fa parte della scelta generale che il paese ha di fronte a sé.

 

Per dirla brutalmente: la questione posta da Renzi va, ormai, oltre Renzi; nel senso che il coperchio che, meritoriamente, Renzi ha tolto pone la società italiana limpidamente di fronte al suo futuro. In maniera, io penso, inesorabile ed irreversibile. Come sará l’Italia del 2030, cioè oltre questo ed il prossimo governo, oltre questa classe dirigente, è l’agenda, la sfida, la… promessa sulla quale cimentarci. Questa prospettiva relativizza le polemiche, le diatribe sulla concertazione, la condivisione di questo o quel provvedimento, ma ci propone di concentrarci sulla direzione di marcia da seguire come una vera e propria scelta di campo. E, non basta più dichiararsi, bisogna agire, scegliere… cambiare.

 

Per questo il sindacato fará bene, come tutti, a ripensare al proprio destino, che non è immutabile. Quando con la industrializzazione di massa che accompagnò il boom economico degli anni ’60, il sindacato delle Commissioni interne, degli operai specializzati impattò nel cambiamento della organizzazione del lavoro vorticoso di allora, ebbe la forza – pur con errori e grossolanitá – di cambiare se stesso nella rappresentanza, nella democrazia, nei contenuti.

 

Fu una grande “rivoluzione” che consentì una delle più massicce operazioni di cittadinanza, di inclusione sociale di quella che allora si definiva la classe subalterna. Gli esiti furono contraddittori, ma è innegabile che anche da quella operazione scaturì la modernitá dell’Italia, la sua crescita economica, la sua dignitá sociale. Ora questa soggettività non sta più riunita nei perimetri delle grandi fabbriche o degli uffici, non è più riunificabile in figure simbolo. Il compito può sembrare più difficile, ma il bisogno di rappresentanza degli interessi e della dignitá si ripresenta in tutta la sua urgenza.

 

In politica, si dice, non ci sono spazi vuoti. Quando, dopo Tangentopoli, la politica era fuori gioco toccò al sindacato prendere il timone e con gli accordi dei primi anni ’90 raddrizzare la barca. Ora che la politica, pur martoriata, ha ripreso a camminare ed è il sindacato ad avere l’affanno, non ci si deve stupire se la politica occupa gli spazi. Si è molto discettato sul fatto che gli 80 euro di maggio erogate dal governo corrispondono ben piú di quanto riesce a dare un contratto di lavoro, ma è un bell’esempio per capire che la sfida aperta, che mette in campo la competizione della rappresentanza, va raccolta. Non chiudendosi, ma aprendo i fortini ed uscendo in campo aperto.

 

In fin dei conti, quando, nei giorni precedenti il Congresso, il Segretario della Fiom, Landini, ha “provocato” dicendo che anche nel sindacato bisognerá scegliere i dirigenti con le primarie ha messo il dito nella piaga. non tanto per la bontá discutibile della proposta, ma per il significato simbolico che ha ed il valore innovativo che assume…

 

Al tempo stesso, la politica deve, in questa discussione, cogliere un punto fondamentale anche per sè stessa: la competizione sul consenso non risolve la complessitá del governo. La politica deve poter decidere, deve decidere; ma prima deve costruire le scelte e poi deve governare, ovvero gestire la quotidianità dei processi. Le societá complesse necessitano di forti guide che indichino la via, compiano scelte strategiche, ma proprio perché sono multiformi, hanno bisogno di una solida cultura della mediazione.

 

Non c’entra niente col consociativismo, che è negativo. C’entra fino ad un certo punto con la stessa concertazione, che appare logorata. C’entra giá di più col coinvolgimento e la partecipazione. Di chi? Parliamoci chiaro: se non sono questi sindacati o queste confindustrie ce ne saranno altre; saranno i movimenti, piú o meno alternativi, antagonisti, o, ancor più corporativi, la rappresentanza collettiva degli interessi è connaturata alla democrazia rappresentativa. Non è comprimibile, perché spunterà, comunque, sotto diverse forme e non è detto che queste varianti siano più responsabili ed attente al bene comune dei pur sfiancati confederali di oggi.

 

Non conviene alla politica che ci sia il deserto nella rappresentanza sociale, ai fini del buon governo, ma, alla lunga, anche ai fini del consenso stesso. Peraltro, per tagliare la testa al toro, la Germania, che tanto, giustamente, citiamo per molti aspetti delle nostre scelte istituzionali ed economiche è governata dalla partecipazione dei lavoratori, organizzati in sindacati, alla vita delle imprese ed è una delle più grandi potenze economiche del mondo e la governabilitá ne trae sicuro vantaggio.

C’è n’è abbastanza per andare oltre le polemiche ed entrare nel merito delle scelte strategiche.

 

Di: Pier Poalo Baretta (Europa)