Il silenzio sulla strage di cristiani
Dopo l’attacco di gruppi riconducibili ad Al Qaeda contro una chiesa di Bagdad che provocò cinquanta morti e un centinaio di feriti il 31 ottobre scorso, una nuova ondata di attentati ha preso di mira, questa volta, le case abitate da cristiani: il bilancio provvisorio, probabilmente destinato a salire, è di almeno tre morti e decine di feriti. In Iraq è caccia aperta ai cristiani e, come dice monsignor Matoka, arcivescovo siro-cattolico di Bagdad, «il governo non fa nulla per fermare gli attentati». È facile, per gli occidentali, liquidare la questione come una delle tante tragiche conseguenze della guerra in Iraq.
C’è del vero ma è anche una spiegazione insufficiente. Così come è insufficiente rilevare che ciò che sta accadendo è anche la conseguenza della forse prematura scelta americana di dichiarare chiusa la guerra in Iraq e di ritirare il grosso delle truppe. Un ritiro che ha lasciato l’Iraq in balia dei piani egemonici iraniani e sta vanificando il lavoro svolto, a suo tempo, dal generale David Petraeus: la guerriglia sunnita è ora in forte ripresa così come l’attivismo di Al Qaeda. I cristiani, inermi e quindi facili bersagli, sono vittime in uno scontro di potere fra gruppi islamici.
Ciò che così non si spiega, però, è perché i cristiani siano continuamente oggetto di attentati in una fascia che va dall’Indonesia all’India, dal Pakistan al Vicino Oriente e che si spinge fino ai territori islamici dell’Africa subsahariana. Le cifre sulla persecuzione dei cristiani nel mondo sono impressionanti. Ogni singolo caso ha certamente anche motivazioni «locali», è anche un portato di condizioni locali. Ciò è vero per definizione. Ma cosa lega la persecuzione dei cristiani nel mondo extraoccidentale, quale è il denominatore comune?
Normalmente, chi nega l’esistenza di qualsiasi cosa possa anche solo ricordare vagamente l’espressione «scontro di civiltà» non ha risposte da dare. Il denominatore comune, infatti, c’è: consiste nel fatto che le comunità cristiane, anche se composte da pachistani, iraniani, nigeriani, o anche se, come nel caso delle comunità del Medio Oriente, lì già presenti molti secoli prima che arrivasse l’Islam, vengono associate dai loro nemici al mondo occidentale, ne sono considerate quinte colonne. Uccidere cristiani, anche là dove essi hanno solo la religione in comune con gli occidentali, ha un grande valore simbolico: elimina una presenza «impura», la spazza via dai territori che agli occhi di chi uccide, e dei tanti che applaudono alle uccisioni, appartengono di diritto ai praticanti di un’altra religione e, contemporaneamente, sferra un altro colpo agli odiati occidentali.
Gli occidentali, però, fanno finta di niente, fingono di non vedere e non capire. La persecuzione dei cristiani non è un tema che sia mai davvero entrato nelle agende dei governi occidentali di Stati Uniti e Europa, sembra non riguardarli. Con tutto ciò che succede nel mondo, paiono pensare governi e opinioni pubbliche, perché dovremmo preoccuparci anche delle disgrazie dei cristiani non occidentali? Invece, dovremmo preoccuparcene. Il nostro sostanziale disinteresse serve a un bel po’ di fanatici in giro per il mondo anche per prenderci le misure, per giudicarci. Ciò che vedono può indurli a pensare che siamo deboli e decadenti e che non c’è pertanto alcun motivo di fermare la mattanza.
Di Angelo Panebianco opinionista Corriere della Sera