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Il neo-colonialismo francese

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Intervista a Sergio Romano (Il Riformista)

L’interventismo del governo francese nella crisi libica riflette un orientamento neo-coloniale? E quali sono le ragioni profonde che animano la scelta di Parigi di promuovere l’iniziativa militare contro Muhammar Gheddafi? Gli interessi petroliferi? O la smania di protagonismo internazionale di Nicolas Sarkozy? Attorno a questi interrogativi si sviluppa la riflessione di Sergio Romano, storico e diplomatico. Il quale delinea la natura complessa dei rapporti fra Italia e Francia: «Legami intensi e altalenanti dal punto di vista politico ed economico, fin dal Risorgimento, con una forte impronta culturale del Belpaese nella formazione di alcune personalità della vita pubblica d’Oltralpe».

È fondata l’accusa rivolta all’Eliseo di realizzare una strategia neocoloniale in Libia?
Parigi ha perseguito da decenni una politica post-coloniale. Charles De Gaulle tentò senza successo di creare l’Unione francese con le ex colonie, sul modello del Commonwealth. Negli anni è riuscita a stabilire un legame paternalistico con quei paesi grazie a una rete clientelare con i loro governanti, “vassalli” del governo francese e quasi sempre dittatori. Sarkozy non vuole rinunciare a quel rapporto. Innanzitutto per ragioni interne: oggi è al 20 per cento dei consensi, e deve recuperare nei confronti di avversari temibili come Le Pen, De Villepin, e Strauss Kahn. Ma comprende che quella politica non è più proponibile, ed è passato rapidamente dal supporto di regimi come quello di Mubarak e Ben Alì alla causa dell’ingerenza umanitaria. Un governante che si gioca tutto in una guerra deve considerare lo scenario del post-Gheddafi, che evidentemente gli offre maggiori garanzie.

Ma la risoluzione delle Nazioni Unite non parla di eliminazione del raìs.
È qui l’ambiguità dell’intervento, che non presenta obiettivi dichiarati e ben delimitati. Sarkozy deve esplicitare questo fine, e non potrà ritirarsi dal paese finché non l’avrà conseguito. Ma non tutti gli alleati sono concordi. Lo prova anche il fatto che l’Alleanza atlantica non avrà una responsabilità politica di direzione dell’iniziativa, che è stata assunta da Parigi e Londra. Peraltro, da “europeista” convinto della necessità di una difesa continentale integrata, non avrei invocato l’intervento di un organismo strettamente dipendente dagli Stati Uniti. Roma lo ha fatto per provare a superare l’asse franco-inglese, anche sollevando il problema delle basi militari e giocando di sponda con l’amministrazione Usa.

Ragionando in una prospettiva storica, quale è la cifra dominante nei nostri rapporti con la realtà d’Oltralpe?
Sono stati legami profondi e altalenanti nel tempo. Abbiamo promosso il processo risorgimentale con la Francia di Napoleone III ma l’abbiamo concluso contro quel paese nel 1870. Nell’Italia unitaria furono memorabili le battaglie anti-protezioniste dei filo-francesi contro Francesco Crispi, simpatizzante della Germania guglielmina. Poi arrivarono le alleanze politico-militari, culminanti nella Grande Guerra e nel richiamo retorico alla fratellanza fra i due popoli. Fino all’avvento di Benito Mussolini, che compì “la pugnalata alle spalle” nel 1940. Una macchia che il governo di Parigi avrebbe “redento” quando insistette per includere il nostro paese nell’Alleanza atlantica e nella Ceca. Ritengo comunque che la tendenza prevalente nella classe dirigente d’Oltralpe è stata di considerare irrilevanti i malumori italiani che andassero contro il suo interesse nazionale. Ma allo stesso tempo è indubbio il fascino, l’intrigo seduttivo che il Belpaese ha esercitato. Alcune personalità di spicco della vita pubblica transalpina hanno avuto grande consapevolezza del ruolo giocato dall’Italia anche nella loro formazione. Penso a Mitterrand e a De Gaulle, che però detestava la partitocrazia esportata dal nostro paese ed erroneamente fu considerato dalla sinistra italiana un «generale anti-democratico».

Alcuni settori nevralgici del nostro tessuto industriale sono obiettivi di scalate da parte di imprenditori francesi.
Approva le misure varate per impedirle?
No. Ma il liberismo funziona al meglio quando ne beneficia una platea ampia di paesi. Tuttavia l’Italia ha le sue colpe: oggi ha perduto tutte le sue posizioni di forza nel nucleare, nell’informatica, nella chimica. Mentre nel settore alimentare e nella moda sono state le aziende transalpine della grande distribuzione a entrare nel nostro mercato: questo perché continuiamo a basare la nostra economia sull’assunto erroneo che “piccolo è bello”

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