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Il Cipputi del Terzo Millenio lavora nei call center

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Fanno film su di loro, monologhi teatrali che raccontano le loro vite al telefono. Sono “i ragazzi del call center”, il simbolo di un’intera generazione. I nuovi Cipputi sono loro. In Europa rappresentano il 30% dei giovani con reddito, in Italia sono quasi un esercito di 300 mila persone, secondo una recente ricerca dell’osservatorio di Siseco (una società specializzata in customer relationship management). E quasi la metà sono precari. Molti lavorano al Sud, perché è qui che le aziende hanno potuto sfruttare a pieno gli incentivi pubblici. Noi siamo venuti a Napoli per incontrali, perché qui ci sono ormai intere famiglie che vivono di call center.

Tommaso Viglietti, jeans e giubbotto, è nella Rsu di Visiant, si sente un privilegiato: ha un contratto a tempo indeterminato ed è ormai un operatore esperto, al punto da essere affiancato alle nuove leve per fare loro formazione; pensa che questo sarà il suo lavoro anche per i prossimi anni, ma poi racconta di alcuni suoi colleghi che sono andati a formare operatori di call center in Tunisia. E un dubbio ci assale: quanto tempo ci vorrà prima che la concorrenza straniera cominci a bruciare anche questi posti di lavoro?

Già oggi, secondo Siseco, sono 7 mila gli operatori impiegati all’estero da società italiane. L’utente chiama e non sa che a rispondergli è un tizio da Tirana o da Bucarest, “mentre non è raro che qui chiami qualcuno dal Nord che ti insulta perché si accorge che sei un meridionale”, racconta Marco Verdolino della Fistel Cisl di Napoli. Gli insulti sono praticamente all’ordine del giorno. “Ti feriscono sempre, – spiega Luisa Tarantino di Assist – ma sai che non puoi riattaccare e che non puoi rispondere allo stesso tono, perché in caso di controversie sei sempre tu ad avere torto”. Capita anche il maniaco e anche in quel caso non si può riattaccare. “Una volta – racconta Marco – mi è capitata la telefonata di un aspirante suicida che mi chiedeva di avvisare la sua famiglia. Ma noi possiamo solo ricevere le telefonate, non possiamo farle. Mi è rimasto il dubbio che sia stato solo uno scherzo, o che magari ci abbia ripensato, chissà: siamo un numero gratuito, chiunque può telefonare”. E loro rispondono per una media di 6 ore al giorno e per un guadagno che va dai 3 ai 7 euro l’ora.

Sono per lo più giovani, venti, trent’anni, ma anche quaranta e quasi tutti hanno un titolo di scuola media superiore, qualcuno ha in tasca anche la laurea. Sono assillati dalla ripetitività delle mansioni, mancanza di prospettive e condizioni ambientali di lavoro, col tempo sviluppano ansia e problemi di udito. Subiscono pressioni di ogni genere. Dalle ferie negate, al consiglio di non ammalarsi, perché rischiano di non essere riconfermati, alle chiamate per Pasqua, Natale, i mesi estivi.Fanno tutti la stessa cosa, parlano al telefono. Ma c’è una sottile distinzione. Ci sono gli inbound, cioè coloro che rispondono alle domande delle persone che telefonano e gli outbound, quelli che invece alzano la cornetta per chiamare persone cui sottoporre domande per indagini di mercato. I primi, secondo la cosiddetta circolare Damiano del 2006, hanno diritto ad un contratto a tempo indeterminato. Gli altri, invece, potrebbero essere inquadrati anche come lavoratori a “progetto”. Una distinzione che fa una certa differenza. Di sicuro tutti aspirerebbero a qualcosa di meglio.

“I call center sono stati una sorta di far west, senza regole e con tanti operatori senza scrupoli”, commenta Lina Lucci, segretario generale Cisl Campania. “Nonostante alcune novità poi intervenute, i problemi restano tanti e gravi”. A Napoli, nei quartieri – ci conferma Vincenzo De Rosa della Fistel Cisl – ci sono strade dove ogni due isolati c’è uno scantinato adibito a call center. E Verdolino ci racconta di uno stanzone senza neppure il wc in cui lavorano una decina di operatori. “Per usufruire della toilette devono andare al bar di fronte”, aggiunge il sindacalista. In questi posti, l’ingresso agli estranei è praticamente precluso.

Per avere un’idea di cosa sia un call center siamo stati costretti a rivolgerci al top: Almaviva, il primo operatore nei servizi contact in Italia, con 15 mila dipendenti. A Napoli occupa quattro piani di un grande palazzo nel cuore del centro direzionale: postazioni a norma e contratti regolari. “Nonostante la crisi – ci spiega Andrea Antonelli, a.d. di Almaviva Contact – quest’anno abbiamo aumentato il fatturato, ma il settore dei call center ha un problema di tipo strutturale, vale a dire che l’80% dei costi è dovuto al lavoro e la forchetta tra quanto sono pagati i servizi ed il costo del lavoro è molto stretta”. Come reggete la concorrenza, allora? “Puntando sulla qualità. Ma è chiaro che quando si fanno le nuove gare e si scopre che ad essa partecipano concorrenti che offrono prezzi che non consentono di coprire neppure i minimi contrattuali, siamo penalizzati”.

Lina Lucci concorda: “Vanno distinti gli operatori seri da coloro che aprono i call center la mattina per chiuderli il giorno dopo. Nel percorso per la definizione di regole che garantiscano parità di diritti a parità di ruoli e funzioni e stabilità nel tempo vanno chiamati tutti gli interlocutori, comprese quelle grandi aziende che puntando esclusivamente a costi più bassi favoriscono fenomeni di sottotutela dei lavoratori”. Per Salvatore Topo, segretario generale aggiunto della Fistel Campania, la soluzione è: “Regole comuni, e poi competere sulla qualità”. “Ma la responsabilità – avverte Salvatore Luisi, segretario generale della Fistel di Napoli – non è solo delle aziende di call center: bisogna chiamare in causa le grandi aziende come Telecom o Enel, perfino le istituzioni che si rivolgono a società che neppure applicano i minimi contrattuali”.

Quanto allo spaccato sociale che emerge dal mondo dei call center, “l’alta percentuale di donne, spesso con elevata scolarizzazione che vi lavora – sottolinea la Lucci – è la spia di problemi più ampi, che riguardano la distanza tra scuola e lavoro e la mancanza di politiche adeguate per favorire l’occupazione di qualità”. Luisa Tarantino racconta di aver cominciato a lavorare durante il suo secondo anno di università, ma di non essere più riuscita a conciliare i tempi dello studio con quelli del lavoro. “La sera torno a casa così stanca che ho voglia solo di dormire. Fare altro? Ho provato. Ma siccome l’unica esperienza di lavoro che ho è quella del call center solo questo mi propongono”. Un suo collega, Antonio Carbone, sempre di Assist, preferisce guardare avanti: al call center ha conosciuto la sua compagna, in due guadagnano 1.600 euro, “abbastanza per cominciare”, dice. Ai suoi genitori, però, dopo quattro anni, ancora ha difficoltà a spiegare esattamente che lavoro faccia.

Anche Antonio Abagnara in qualche modo si sente un privilegiato: lavora in Almaviva con un contratto stabile. Eppure ammette: “E’ un lavoro che non puoi fare per trent’anni, non ci arrivi alla pensione. Persino la pausa regolamentata di un quarto d’ora diventa ragione di stress: sei sempre lì a controllare quanti minuti ti mancano”. Rosario Di Lorenzo, invece, è un team leader: coordina un gruppo di operatori, ne organizza i tempi di lavoro, le pause, le ferie; ma lui stesso ammette di avere difficoltà ad organizzare le sue: “A volte arriviamo a conoscere le date delle nostre ferie appena quindici giorni prima”. Niente ferie, invece, per Bruno Santoro e Pellegrino Rinaldi di Voicity: l’azienda non paga i loro stipendi da novembre (vedi l’articolo nella pagina accanto). Persino le loro colleghe in maternità non stanno percependo alcuna indennità: i soldi li mette l’Inps, ma l’azienda sta trattenendo anche quelli. Voicity è una voragine che ha ingoiato il futuro di 2.500 lavoratori in tutta Italia. Per loro domani, a Napoli, i sindacati dovrebbero firmare la richiesta della cassa integrazione in deroga. Ma il condizionale è d’obbligo, dal momento che l’azienda fino all’ultimo non ha confermato la sua presenza.

Di Voicity e dei suoi guai ne abbiamo parlato con Tommasino Ferlinghetti, segretario nazionale Fistel Cisl, in uno dei tanti incontri che si sono susseguiti al ministero dello Sviluppo economico. “Insieme a Phonemedia – ci spiega – sono quasi diecimila le persone lasciate per strada. Il sindacato si è attivato per cercare una soluzione alternativa: ammortizzatori e, magari, altre aziende interessate a rilevare i call center ed i suoi operatori. Ma non basta. Con il rinnovo contrattuale abbiamo concordato l’istituzione di un osservatorio di settore. Un punto su cui come Fistel in particolare abbiamo battuto molto”. Il primo appuntamento è fissato per domani al ministero dello Sviluppo economico. Davanti i sindacati hanno un percorso lungo ma un obiettivo certo: cacciare i riders che sono entrati nel business dei call center solo per realizzare il massimo dei profitti a breve con il minimo degli investimenti, e dare a questi lavoratori ciò che fino ad oggi non hanno avuto: un posto sicuro e la dignità di un lavoro vero.

Di Ester Crea (Conquiste del Lavoro)

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