I leader politici parlano solo per il consenso.
Il problema, con la leadership carismatica, è che diventa come un blog su Internet: ha bisogno di essere alimentata continuamente. Il rapporto fra la persona e il suo magico consenso deve essere tenuto in vita con gesti, fatti, eventi, con un continuo climax in cui converge ogni momento la riaffermazione o la caduta di una proposta politica. Sarà per questo che le relazioni internazionali, una volta reame di passi felpati e voci sussurrate, sembrano aver preso la strada dello strappo, dell’annuncio, e del grido. Con il risultato che raramente come in questi ultimi mesi viviamo come in una caverna che risuona di voci discordanti. Una cacofonia che rende quasi incomprensibili molti passaggi cui stiamo assistendo.
Ancora una volta il fenomeno è trainato dagli Stati Uniti. Negli ultimi mesi il Presidente Obama ha fatto una serie di scarti che hanno lasciato del tutto sorpresi, soprattutto per la sequenza in cui sono stati intrapresi.
L’esempio migliore è quello della Cina. Non avevamo fatto in tempo a sprecare parole sulla nascita del G2, questa quasi inevitabile alleanza tra le maggiori potenze attuali, Cina e Usa, che il G2 si è frantumato. Tutti i primi passi della nuova amministrazione di Washington sono stati segnati dal riconoscimento di fatto di questa inevitabilità: i primi passi del segretario di Stato Hillary Clinton sono partiti non a caso dalla Cina, e non dall’Europa, come tradizione.
Quando lo stesso presidente si è poi recato in Cina, pochi mesi fa, alla nascita del G2 Washington ha sacrificato le questioni del diritti umani, del Tibet, e della libertà individuale nell’ex Paese di Mao. Alla Cina sembrava tenere così tanto, Obama, che in dicembre ha inghiottito con grazia anche la mazzata sferrata da Pechino sul summit ecologista di Copenhagen.
Pragmatismo, realismo, Obama si è preso le sue brave lodi su queste decisioni; forse non dagli appassionati delle varie cause, ma dall’establishment mondiale di sicuro. Solo un mese dopo l’amministrazione si è spostata sul versante esattamente opposto alla conciliazione. Hillary Clinton ha preso posizione contro la censura a Google, poi c’è stato l’annuncio della vendita delle armi a Taiwan e, ora, quello dell’incontro fra il presidente Usa e il Dalai Lama. Praticamente tre dita negli occhi della dirigenza cinese.
Ma ci sono altri casi clamorosi: quello dell’Iran è certamente il più drammatico. Washington ha tenuto una linea erratica: richiesta di sanzioni dure, richiami energici a tutti i partner (e gli alleati italiani ne sanno qualcosa di questa bruschezza di modi washingtoniani in merito all’Iran), alternata ad aperture a possibili trattative; difesa dell’opposizione iraniana nelle strade, seguita dal silenzio più totale mentre dall’Iran arrivano come uno stillicidio i numeri degli oppositori arrestati, impiccati, fucilati.
Dall’altra parte, va detto che l’oscillazione Usa ha attecchito in tutte le nazioni. Teheran negli ultimi giorni ci ha fatto sapere alternativamente di essere disposta a inviare l’uranio per l’arricchimento all’estero (posizione minima per una trattativa), ma anche che ha sperimentato un nuovo missile, e che Israele sarà cancellata dalla faccia della Terra. La Cina ha risposto al duro «nuovo Muro di Berlino» di Hillary, prima con un diplomatico: «richieste irragionevoli»; ora però è vicina all’aut aut sulla questione del Dalai Lama.
Di affermazioni bombastiche non ne mancano dal Brasile e dal venezuelano Chávez; né va dimenticato l’Osama bin Laden in versione (questo sì sorprendente) ambientalista. Qualche contributo a questa atmosfera è venuto anche dall’Italia. Il nostro premier è sembrato ondivago sulle critiche fatte dal Commissario Bertolaso agli aiuti Usa per Haiti prima smentendolo e poi celebrandolo. A proposito di Usa-Italia: qualcuno ha dimenticato il pesante intervento di Hillary sulla giustizia italiana per difendere l’Amanda di Perugia, per poi fare un immediato passo indietro? Durante la visita di Silvio Berlusconi in Israele abbiamo infine sentito il nostro Premier scagliarsi contro Teheran (rompendo così il ruolo di mediazione che in quel conflitto l’Italia intende da anni ritagliarsi) e celebrare in Israele l’operazione «Piombo fuso» a Gaza, e subito dopo dichiarare ai palestinesi «inaccettabili» gli insediamenti nei Territori. La cacofonia è questa, questo accavallarsi di voci in cui è difficile ritrovare un filo conduttore.
«Mosse tattiche», «fragilità da coprire», si dice nel mondo diplomatico. Ma è egualmente difficile ritrovare un senso a tutto questo. A meno che, come si diceva, non si assuma il punto della leadership carismatica.
Le caratteristiche della vittoria di Obama, quel mix di fascino, proposte, speranza, affabulazione e esoterismo, sembra in realtà aver avuto una profonda influenza in tutto il mondo. Il patto diretto, emozionale, che un presidente stabilisce con il suo popolo è divenuto, quasi istintivamente, il segno che tutti i leader del mondo (salvo i pochi che proprio non ci riescono, come Brown) hanno copiato. Ma, come si diceva, la leadership carismatica è difficile da mantenere. Proprio perché si fonda su un patto diretto con i cittadini, rischia di spezzarsi in ogni momento, su ogni decisione «impopolare». Si è visto con Obama, quanto sensibile sia il consenso: e non è dunque difficile immaginare che molte mosse con la Cina (ad esempio) siano la risposta alle critiche che ha ricevuto sull’economia, o la mancata difesa del clima, o dei diritti umani. Identici meccanismi che si intravedono per Teheran, e tutti i leader fin qui citati. Senza escludere – tanto per far capire quanto pervasivo è il fenomeno – la stessa opposizione italiana.
La leadership carismatica può trasformarsi dunque in una sorta di trappola, che va alimentata in continuazione da misure «popolari», da gesti e annunci. A spese di quella che – come ben si sa – è la capacità di scelta che contraddistingue la vera leadership. Con il rischio di finir governati non dalle schede elettorali, ma dai poll di gradimento.
Di: Lucia Annunziata (Stampaweb)