Gli effetti della crisi sull’opinione pubblica
I cambiamenti di umore dell’opinione pubblica possono avere effetti duraturi sulle scelte di politica economica, alterando il benessere sociale. Alla fine dell’Ottocento, nel mezzo della prima globalizzazione, un osservatore non avrebbe mai immaginato che il processo di integrazione economica a cui stava assistendo potesse improvvisamente terminare. Tuttavia, un atteggiamento collettivo sempre più ostile al commercio internazionale e all’immigrazione fermò il processo, portando ad un cambiamento di rotta da parte dei governi di tutto il mondo.
Quali sono i fattori che determinano o influenzano l’atteggiamento nei confronti dell’integrazione economica internazionale? E quale può essere il ruolo della crisi attuale all’interno di questo processo?
Opinioni sulla globalizzazione
Diverse istituzioni hanno raccolto dati sull’atteggiamento delle persone nei confronti del commercio internazionale e dell’immigrazione. Nonostante campioni e metodologie statistiche differenti, alcuni trend comuni sembrano emergere. Primo, in percentuale poche persone considerano negativamente il commercio internazionale (generalmente non oltre il 30%); tuttavia, questa percentuale è aumentata tra il 2002 e il 2007 in diverse aree del mondo, principalmente nel Nord America. Secondo, i dati relativi all’immigrazione dimostrano come l’atteggiamento nei confronti dei movimenti di persone sia più stabile e negativo (tra il 30 ed il 55%).
Mancando rilevazioni statistiche a livello mondiale, è prematuro stabilire come e se la crisi economica abbia influenzato l’opinione pubblica. Tuttavia alcuni recenti sondaggi, condotti nei Paesi più sviluppati, permettono di trarre delle conclusioni. Innanzitutto, il Financial Times/Harris Poll del marzo 2009 rileva che negli Stati Uniti e nel Regno Unito un’alta percentuale di intervistati (33 e 53% rispettivamente) considera il protezionismo come un’arma vincente per aiutare l’economia ad uscire più velocemente dalla recessione. Il rapporto Transatlantic Trends del giugno 2009 trova simili risultati per i paesi dell’Europa Orientale, mentre di parere opposto appaiono i cittadini dei maggiori paesi dell’Europa occidentale: l’82% degli intervistati ritiene che sia opportuno mantenere aperti i propri mercati.
Riguardo l’immigrazione non ci sono indagini sulle opinioni prima e durante la crisi, tuttavia un recente lavoro di T. Boeri può rivelarsi utile. Boeri confronta i risultati di una domanda fatta dalla European Social Survey nel 2002 con una simile domanda del FT/Harris Poll del marzo 2009. In entrambe le ricerche si chiedeva se gli immigrati dovessero lasciare il paese una volta perso il posto di lavoro. La percentuale di intervistati d’accordo con quest’affermazione è aumentata in tutte le grandi economie europee, in media del 27%.
Cosa determina l’atteggiamento nei confronti del commercio internazionale?
Una recente letteratura empirica mette in luce come una combinazione di fattori economici e non economici possano influenzare le percezioni individuali sulla globalizzazione. Tra i fattori economici, quello più importante è l’effetto del commercio sul mercato del lavoro. Nei paesi più avanzati, in cui la maggioranza dei lavoratori sono qualificati, la forza lavoro più istruita è a favore dell’apertura commerciale, mentre l’opposto è vero per i lavoratori meno istruiti. Il contrario vale nei paesi in via di sviluppo con un’abbondante forza lavoro poco qualificata. Anche controllando per variabili non economiche, come l’età, il sesso, o il nazionalismo, i coefficienti non cambiano segno e continuano ad essere statisticamente significativi.
Un secondo punto riguarda il ruolo dell’incertezza economica nell’influenzare l’atteggiamento nei confronti del commercio internazionale. Un recente studio a cura di A.M. Mayda, R.H.O’Rourke e R. Sinnot rileva che l’incertezza sul lavoro spinge verso una forte avversione nei confronti del commercio. In altre parole, i lavoratori che temono di perdere il posto di lavoro favoriscono l’adozione di politiche protezionistiche. Inoltre, questo studio mette in luce come politiche interne volte a ridurre l’incertezza economica (programmi di welfare o spesa pubblica diretta ad aumentare l’occupazione) rendano le persone meglio disposte nei confronti del commercio.
Cosa determina l’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione?
Secondo la teoria economica le migrazioni hanno effetti sulla distribuzione del reddito simili a quelli del commercio internazionale. Questi risultati sono confermati dall’evidenza empirica: in paesi dove i lavoratori nazionali sono più qualificati degli immigrati il livello di qualificazione è positivamente correlato con un atteggiamento favorevole all’immigrazione. L’opposto accade nei paesi abbondanti di lavoratori non qualificati.
Un altro risultato interessante rigurada i programmi di welfare. In paesi con un generoso welfare state e una tassazione proporzionale o progressiva, gli immigrati poco qualificati contribuiscono al bilancio pubblico meno che proporzionalmente rispetto a quello che ricevono in termini di servizi pubblici, come la sanità o l’istruzione per i figli, e in termini di trasferimenti, come sussidi alla disoccupazione. Pertanto, l’immigrazione tende ad incrementare i costi di welfare. Questo costo è pagato principalmente dai cittadini nativi. I dati dimostrano che, in paesi con lavoratori domestici più qualificati rispetto agli immigrati, la pressione fiscale riduce le preferenze a favore dell’immigrazione (ciò è vero nonostante i programmi di welfare riducano l’incertezza economica dei nativi).
Crisi, opinione pubblica e il trilemma dell’apertura internazionale
Questi risultati empirici supportano l’idea che l’integrazione internazionale implichi un trilemma: apertura agli scambi commerciali, all’immigrazione e un generoso sistema di welfare sono difficilmente riconciliabili, almeno nelle economie avanzate.
Un atteggiamento positivo nei confronti del commercio richiede safety nets e programmi di welfare, al fine di limitare le conseguenze negative dell’incertezza economica. Tuttavia, il sistema di welfare aumenta il costo fiscale dell’immigrazione poco qualificata e incrementa di riflesso l’avversione verso l’immigrazione. D’altro canto, se la spesa pubblica volta a finanziare programmi di welfare è bassa, allora l’ostilità nei confronti dell’immigrazione sarà minore; tuttavia, l’effetto collaterale sarà quello di indurre una maggiore avversione nei confronti dell’apertura commerciale per via di una maggiore incertezza.
È importante chiarire come la crisi economica possa influenzare l’opinione pubblica nei confronti della globalizzazione. L’effetto della crisi varia a seconda di dove un paese si posizioni nel trilemma. In generale, un rallentamento dell’economia è associato ad un aumento dell’incertezza, come, per esempio, un aumento della probabilità di diventare disoccupato, incrementando l’avversione verso la globalizzazione. Tuttavia gli effetti potrebbero essere asimmetrici: elettori in paesi con programmi di welfare meno sviluppati potrebbero richiedere politiche commerciali più protezionistiche, mentre paesi con un maggiore welfare state potrebbero registrare un aumento dell’avversione nei confronti dell’immigrazione.
Negli ultimi mesi diversi governi hanno risposto alla crisi economica incrementando la spesa pubblica e rivitalizzando i programmi di welfare. In altri il dibattito è in pieno svolgimento, come l’adozione della riforma sanitaria negli Stati Uniti. Se l’analisi precedente è corretta, questi interventi di policy potrebbero avere un effetto positivo, se pure indiretto, sull’opinione pubblica nei confronti del commercio e negativo sugli atteggiamenti verso l’immigrazione.
Di Michele Ruta ( Economista nel dipartimento di ricerca economica del Wto)
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