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Gattopardi d’Europa

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Ha perfettamente ragione il presidente Napolitano quando dice, come ha detto due giorni fa, che l’Europa in quanto tale «è destinata all’irrilevanza e al declino se non riesce ad operare come soggetto unitario nello scenario internazionale». Egli certamente non si riferiva soltanto ai crampi di violenza che nelle ultime settimane hanno sconvolto l’Italia e la Grecia, matrici millenarie della civiltà europea e oggi traballanti pilastri mediterranei dell’Unione continentale. Si riferiva, indubbiamente, anche ai disordini di Copenhagen che hanno fatto da sfondo all’irrilevanza del «soggetto Europa» nella grande e confusa conferenza mondiale sul clima: conferenza gestita in maniera caotica dai padroni di casa e dominata, di fatto, dal dialogo sordo e rivale tra le due maggiori potenze inquinanti, America e Cina, che insieme producono il 50 percento delle emissioni planetarie. Si potrebbe dire che la minacciosa formula CO2 si sia quasi convertita in una sorta di disarmonico e tuttavia egemonico G2 tra Wahington e Pechino. Neppure l’intervento tanto atteso del Nobel Obama è riuscito a diradare il senso di fallimento, che gravava fin dall’inizio sul tumultuoso consesso, ma lo ha semmai accentuato.

Tante nobili parole e belle promesse in dollari ai Paesi più bisognosi d’aiuto, riuniti in una sorta di G77 dei poveri, demagogicamente appoggiato dalla Cina; sennonché gli impegni per ora verbali del presidente americano dovranno passare poi, chissà quando e come, al vaglio e all’approvazione del Congresso già messo a durissima prova dalla catena di crisi domestiche, automobili, banche, sanità, spese militari in Iraq e Afghanistan. All’Europa sono stati chiesti soltanto sacrifici, somme esorbitanti di euro e scadenze ecologiche quasi punitive. Ma nessuna delle sparpagliate proposte europee sul taglio alle emissioni, sul riequilibrio razionale mediante tecnologie pulite tra sviluppo e inquinamento, è stata presa molto sul serio: si è avuta la netta impressione che a Copenhagen l’Europa venisse presa in considerazione tutt’al più come un istituto di credito, non certo come una coesa e dirimente entità politica.

La Russia s’è tenuta con prudenza in disparte, con un presidente incerto se rappresentare un Paese emergente o un impero decaduto. La passerella è stata confiscata, più che dalle parole, dall’immagine di Obama a tutto scapito del grigio Gordon Brown, dell’irrequieto Nicolas Sarkozy, dell’imbarazzata Angela Merkel che ha dovuto sobbarcarsi anche il ruolo di rappresentare l’assente Silvio Berlusconi. L’Europa, titubante su una grandiosa scena internazionale, dove non poteva presentarsi unita nella persona di un presidente ignoto come Herman Van Rompuy, è apparsa più che mai frantumata, ferita, poco attrezzata a misurarsi con le sfide della globalizzazione di cui, piaccia o non piaccia, lo scontro vero o verosimile con i gas da ipersviluppo è divenuto un simbolo onnipervasivo. Dietro il simbolo climatico si nasconde, in realtà, una competizione ai ferri corti che non ha molto a che vedere col clima, ma con l’esito da cui dipenderà in gran parte il comando dell’economia mondiale nel XXI secolo. L’America resiste per mantenere i ritmi del suo sviluppo industriale, la Cina per promuoverli a velocità travolgente; l’una e l’altra si guardano bene dall’aderire alle raccomandazioni di Kyoto, d’altronde già accantonate e considerate obsolete anche da chi le aveva controfirmate.

È l’Europa nel suo insieme a fare le spese del comprimario debole. L’impatto con l’assediato supersummit in Danimarca, in cui si sono visti tanti Amleti europei oscillanti tra l’essere e il non essere al rimorchio dell’America, che neppure li vede impegnata com’è a negoziare la pace fredda con la Cina, è stato il primo negativo banco di prova delle scadenti e invisibili promozioni ai vertici di rappresentanza dell’Unione Europea. La paralisi di fatto della conferenza sul clima mondiale ha coinciso con l’offuscamento dell’immagine internazionale dell’Europa, peraltro in crisi di piazza in Italia e sul ciglio della bancarotta nazionale in Grecia. Copenhagen ha aggiunto il resto. Poco prima che tutto ciò accadesse l’Economist, in un saggio mordente e quasi coincidente con il monito di Napolitano, ha paragonato il declino dell’Europa a quello sia pure minore e più remoto della Sicilia del Gattopardo: il famoso romanzo insegna che vivere nel declino può essere una scelta suggestiva. Non è poi così terribile essere un continente vecchio, pacifico e prospero. Però, non è da dimenticare che i rivali dell’Europa sono giovani e affamati. Saprà il vecchio continente resistere al fascino di una resa gentile?

Di Enzo Bettiza La Stampa