Fiat, domande senza risposta
Sergio Marchionne ha speso sull’Italia parole di verità che sono diventate parole di troppo a causa di alcuni, rumorosi silenzi. Parole che non vorremmo leggere come il prologo di un addio. Senza l’Italia la Fiat andrebbe meglio, sostiene il suo amministratore delegato.
Certo, negli anni in cui concentra la produzione nelle fabbriche polacche e brasiliane (nuove o rifatte, snelle e con bassi salari), e domani quando esalterà la Chrysler sussidiata dalla Casa Bianca, i costi fissi della vecchia, pletorica intelaiatura domestica ammazzano il conto economico. Ma se si limita a citare la triste posizione dell’Italia nelle classifiche sulla competitività industriale, salvo non spiegarci come mai con le sue medie e piccole imprese sia la seconda potenza esportatrice d’Europa, Marchionne finirà con il dare fiato a chi lo sospetta di manovrare perdite e profitti Paese per Paese, allo scopo di contrattare al meglio aiuti pubblici e sconti sindacali. Ieri, oggi e domani. L’Italia è quello che è. Lo scriviamo in tanti da sempre. Marchionne aggiunge la sua testimonianza d’eccezione. Bene. Ma quest’Italia e anche questa Fiat, così spesso malgestite dall’alto, sono anche quel Paese e quell’azienda che hanno inventato il common rail, il multijet e il multiair.
Tutti parlano e non si capisce dove vada il Paese, lamenta Marchionne. Una frustata al radicalismo sindacale e al governo, che a parole sostiene l’azienda, ma poi non fa politica industriale. E tuttavia il capo della Fiat esercita anche lui un potere del quale dovrebbe rendere conto non solo agli analisti finanziari. Le domande s’affollano. Che cosa ha inventato di grande in quest’ultimo lustro la Fiat? Come lavora l’ufficio progetti? Quanto incidono i 10 minuti di pausa in meno o il sabato lavorativo in più sui margini di contribuzione dei diversi modelli? Come intende cambiare stabilimento per stabilimento, e con quale spesa, l’obsoleta struttura produttiva italiana? I mitici 20 miliardi in 5 anni vanno bene per introdurre, ma poi bisogna spiegarsi. Anche perché la Fiat non sta investendo al ritmo promesso. I molti, che hanno visto in Marchionne l’eroe della rinascita italiana, vorrebbero capirne di più. Il capo della Fiat dovrebbe rispondere in particolare ai sindacati moderati che gli hanno firmato una cambiale in bianco rischiando la propria reputazione. Promettere di avvicinare i salari Fiat a quelli francesi o tedeschi pare troppo bello per essere vero. Citare le percentuali del tesseramento per delegittimare il sindacato non è un pò superficiale? La Francia, assai meno sindacalizzata dell’Italia, sta mettendo in croce Sarkozy.
Se avesse preso la Opel, la Fiat avrebbe accettato il regime della codecisione con i sindacati tedeschi, che hanno meno iscritti degli italiani. Perché dunque non istituzionalizzare la collaborazione sfidando Fim, Fiom e Uilm, ma anche le altre grandi imprese private e pubbliche, sul terreno ambizioso della codecisione? Nel Novecento, la Fiat modernizzò l’Italia imitando la Ford.
Ma da vent’anni l’America non ha più nulla da insegnare nell’auto. In Europa, per l’auto, e non solo, il modello è la Germania, terra di doveri e di diritti, dove il governo taglia la spesa pubblica, impone sacrifici, ma fa politica industriale, finanzia la ricerca e conserva, nonostante le lamentele della Confindustria tedesca, il ruolo centrale e stabilizzatore del sindacato; e poi, quando torna il bello, ripaga.
Di Massimo Mucchetti opinionista Corsera