Facce di bronzo: Iran, Alcoa e altre storie
Nel suo recente viaggio in Israele e Palestina, l’attuale presidente del consiglio ha sostenuto una cosa e il suo contrario, in perfetta coerenza con la politica dell’equidistanza di quando – lo Stato italiano – vendeva armi all’Iraq e all’Iran in guerra tra loro. Per compiacere gli amici israeliani non ha potuto sottrarsi, dissimulando l’ambiguità dei nostri rapporti politici con l’Iran, dal dichiarare il blocco delle relazioni economiche e commerciali con quel paese. Che dovesse esserci più rigore e impegno nello stringere il cerchio delle sanzioni internazionali attorno al neo-nazista Ahmadinejad, come sindacati confederali e, in particolare, come Cisl, lʼabbiamo sempre sostenuto. Si tratta ora di vedere se il Governo sarà conseguente (eanche noi come sindacati) nei confronti dell’intero Gotha del capitalismo nostrano presente in Iran, con scambi tecnologici e commerciali cresciuti dai 3,5 miliardi di euro nel 2001 ai 6,0 nel 2008 (assestatisi nel 2009 con la crisi globale). L’Eni ha già dichiarato che non firmerà in Iran nuovi contratti, ma porterà a scadenza quellisottoscritti, cioè la seconda fase dello sviluppo del giacimento di Darkhovin, che aumenterà la produzione da 50mila a 160mila barili il giorno. Peccato che la compagnia petrolifera statale iraniana smentisca lʼinterruzione delle trattative con Eni per la terza fase, ma non fasciamoci la testa.
LʼEni nel 2009 ha vinto lʼaward per la migliore comunicazione al mondo in tema di responsabilità sociale, nonostante le malefatte in Nigeria, e troverà il modo per salvare business e immagine! Ma oltre il nostro gigante energetico sono molte le imprese italiane che fanno affari in Iran. Nel settore petrolifero e del gas ci sono Edison e Maire Tecnimont, quest’ultima sembrerebbe coinvolta anche negli sviluppi del programma nucleare iraniano. Nel settore engineering e meccanica strumentale operano Ansaldo Energia (turbine), Fata e Danieli (impiantistica industriale) e Seli (mezzi di movimentazione terra). In quello militare la Carlo Gavazzi Space (satelliti), la Fiat Iveco (mezzi di trasporto) e la Fb Design (piccole unità navali). Per non parlare di altre presenze pesanti come Mediobanca, Telecom, Capitalia e Montedison. Ma questa è unʼaltra storia!
Sui rapporti tra Italia e Iran cʼè, infatti, una notizia sfuggita ai media forse perché distratti dalle infinite “gaffes” del presidente del consiglio o alla ricerca di nuovi gossip. Il 26 gennaio 2010, poco prima della missione italiana in Israele e Palestina, lʼIstituto del Commercio Estero italiano ha emesso un comunicato stringato, in cui annunciava che Amhadinejad aveva inaugurato, a Bandar Abbas sul Golfo Persico, il più moderno e avanzato impianto di produzione di alluminio, con una capacità di 147 mila tonnellate, frutto di un investimento comune italiano-iraniano di 600 milioni di Euro.
La nuova fabbrica Hormozgan Aluminum Complex, che a regime raggiungerà la produzione di 275 tonnellate, è stata realizzata dallʼitaliana Fata. Con un contributo italiano di 300 milioni di Euro, rappresenta il finanziamento estero più consistente mai registrato nel settore. Lʼimpianto appartiene allʼimpresa iraniana Iralco (Iranian Alumunium Company), il cui capitale è interamente nelle mani dellʼorganismo statale Imidro, che controlla lʼintero sistema minerario e siderurgico iraniano. E’ stato, quindi, un bel regalo dellʼItalia, direttamente nelle mani di Amhadinejad. E qui a ben vedere, oltre i media, anche il responsabile della Farnesina è sembrato un poʼ distratto. Non solo lui, a dire il vero, ma anche i suoi colleghi del ministero dello sviluppo economico, impegnati negli stessi giorni a trovare una soluzione alla “bollente” vertenza Alcoa.
Niente da eccepire sul loro impegno a garantire che l’impresa transnazionale Alcoa non dismetta le sue produzioni di alluminio primario in Italia, assumendo con risorse pubbliche gli extra-costi per l’energia elettrica, il principale fattore di costo, insieme al minerale, per produrre l’alluminio. Nonostante ciò, qualcosa da ridire al Governo italiano c’è sul piano della politica industriale, oltre che della politica estera. Se la volontà di Alcoa – o di altre transnazionali del settore – di chiudere i loro siti in Europa per la produzione primaria d’alluminio, spostando il loro baricentro in paesi come l’Iran dove il costo dell’energia elettrica e del gas è bassissimo e lo stipendio medio mensile è di 145,00 Euro, si può capire (ma non giustificare, né accettare) la scelta dello Stato italiano di trasferire, con tecnologie e soldi nostri, capacità produttive nel settore alluminio nelle mani dello Stato iraniano, è del tutto incomprensibile. Sarebbe bene, pertanto, che si uscisse dalla “propaganda di regime”, smettendo di essere ipocriti, nella speranza che le politiche del nostro paese (da quella estera a quella industriale) siano ricondotte a una soglia di coerenza, almeno decente.
Di Gianni Alioti Ufficio Internazionale Fim-Cisl