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Europa e l’economia del ‘chi fa da sè fa per tre’

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Si sa che i proverbi, nella loro saggezza antica e popolare, dicono tutto e il contrario di tutto. Per cui, uno può invocare ‘l’unione fa la forza’ e un altro appellarsi a ‘chi fa da sé fa per tre’: veri entrambi, a seconda delle circostanze. Legittimo, però, stupirsi che la Commissione europea, nello scrivere ‘Europa 2020’, la strategia economica per l’Unione degli Anni Dieci del XXI secolo, s’ispiri più a ‘chi fa da sé fa per tre’ che a ‘l’unione fa la forza’, lasciando ciascuno dei suoi 27 Stati libero di definire i propri obiettivi all’interno di un quadro di riferimento non cogente. E chi sgarra si sorbirà al massimo un predicozzo.

Annacquamento. La strategia europea del prossimo decennio che la Commissione ha ora approvato dopo una fase di consultazione e che i leader dei 27 discuteranno entro marzo, non è l’esaltazione, ma piuttosto l’annacquamento dell’Unione e dell’integrazione. Giusto, certo, evitare gli errori compiuti nel decennio trascorso, quando la cosiddetta ‘agenda di Lisbona’ era caratterizzata da obiettivi ambiziosi, rivelatisi, però, spesso irrealistici e quindi portatori di delusione e frustrazione. Ma manca, nel documento dell’Esecutivo, il sogno, l’utopia, un progetto ideale di grande respiro, come lo fu negli anni novanta la moneta unica: gli Stati restano sovrani, sugli obiettivi economici, la politica fiscale, gli impegni di bilancio e il ‘governo dell’economia’. Bruxelles potrà solo dare i voti, ma non avrà strumenti per punire gli allievi cattivi della classe europea.

E poiché l’ottica è economica, è inutile cercare nel documento riferimenti, magari pindarici, ma stimolanti, a un esercito europeo, o ai Balcani riunificati e pacificati nell’alveo Ue, a cent’anni o poco più dagli spari di Sarajevo che fecero scattare la botola di due guerre mondiali e delle più massicce atrocità della storia umana. La parola d’ordine della Commissione è evitare che gli anni dieci segnino un declino economico dell’Europa: “Il 2010- dice il presidente, il portoghese Josè Manuel Durao Barroso – deve segnare un nuovo inizio”, perché “mantenere lo status quo ci condannerebbe inevitabilmente a un graduale arretramento e relegherebbe l’Europa a un ruolo mondiale di secondo piano”.
Gli ultimi due anni hanno segnato la perdita di milioni di posti di lavoro e la cancellazione di risultati raggiunti nell’ultimo decennio, con la produzione industriale precipitata sui livelli 1999: ci vorranno da due a quattro anni per tornare sui livelli di ricchezza pro capite precedenti la crisi e ci vorrà il doppio del tempo per recuperare i livelli d’occupazione. In pratica, solo nel 2015 prevedibilmente staremo di nuovo così bene come stavamo nel 2008. E questo nell’ipotesi che le variabili finanziarie della speculazione e del rischio non ci preparino altre trappole. “Ora – prosegue il presidente dell’Esecutivo – per conseguire un futuro sostenibile dobbiamo guardare oltre il breve termine”. La strategia 2020 punta a “una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva: è l’unica chance che abbiamo di riuscire”.

Parole chiave.L’Ue 2020 gira sui cardini dell’innovazione, della crescita e dell’occupazione e ha cinque obiettivi cifrati: portare dall’1,9 al 3% del Pil gli investimenti in ricerca e sviluppo; raggiungere un tasso d’occupazione del 75% almeno per la popolazione tra i 20 e i 64 anni; fare scendere sotto il 10% la quota di giovani che abbandonano la scuola e fare salire al 40% almeno la quota di diplomati o laureati; garantire una crescita sostenibile , riconvertendo l’economia e sviluppando la ‘green economy’, con una riduzione del 20% delle emissioni di CO2; strappare 20 milioni di persone al rischio povertà. Un altro punto forte è lo sviluppo delle infrastrutture fisiche, a partire da quelle nei settori dei trasporti e dell’energia, che devono essere rafforzate per completare e fare funzionare davvero il mercato unico – Mario Monti sta lavorando, per conto di Barroso, a proposte in merito. Gli obiettivi generali, giudicati raggiungibili, saranno tradotti in obiettivi nazionali. Questa è la grande differenza con la strategia dell’agenda di Lisbona: tenere conto delle differenze tra paese e paese. Ogni Stato Ue dovrà, infatti, presentare ogni anno il suo programma con dentro i traguardi che intende conseguire rispetto ai parametri di riferimento. Poi, l’Unione valuterà se gli sforzi del singolo paese sono sufficienti o meno, proprio come già avviene nel campo dei conti pubblici, dove gli Stati devono presentare ogni anno il programma di stabilità. E se gli Stati ‘virtuosi’ saranno premiati con incentivi e agevolazioni nell’accesso ai fondi europei, quelli inadempienti saranno oggetto di raccomandazioni da parte della Ue, le quali potranno essere seguite da ‘policy warning’, vale a dire veri e propri allarmi da parte della Commissione. Non sono però previste invece sanzioni: “Non credo che sia il caso”, sostiene Barroso. L’Esecutivo consegna, quindi, alla riflessione dei capi di Stato o di governo dei 27, che dovrebbero pronunciarsi in modo definitivo entro il prossimo giugno, la proposta di un governo dell’economia europea spuntato, ridotto a gestire solo meccanismi di dialettica più o meno tradizionali e spesso inefficaci tra Istituzioni comunitarie e Stati membri.

Museificazione Manca, in questa fase, la coesione, oltre che l’entusiasmo e , specie da parte di Barroso, il coraggio. Anche se, come osserva Janis Emmanouilidis, senior policy analist dello European Policy Center, l’Unione può avere bisogno di fermarsi un po’ a ‘digerire’ un ventennio ‘costituente’, dal Trattato di Maastricht a quello di Lisbona, prima di muoversi di nuovo in avanti. C’è pure e forse soprattutto un problema di metodologia decisionale. Parlando all’Università di Milano Bicocca, il primo marzo l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi ha detto: “L’Unione europea è stato il più bel laboratorio della politica degli ultimi 60 anni, il più importante. Ma oggi rischia di diventare un museo: con l’unanimità, oggi non si gestisce neanche un condominio”. Il meccanismo inibitorio dell’unanimità va dunque superato: “Il Trattato di Lisbona è una buona cosa, ma è un compromesso d’un compromesso d’un altro compromesso”, dalla Costituzione bocciata al Trattato impallinato dai referendum e rivisto due volte al ribasso. “La prima stesura – ha ricordato Prodi – prevedeva la fine dell’unanimità. Ora, l’unanimità è stata tolta da alcuni capitoli, ma rimane sugli aspetti politici più importanti, come la difesa e la politica economica” (e pure fiscale). Una strategia 2020 credibile non dovrebbe, quindi, limitarsi a una cura economica, pur necessaria. Bisogna, diceva Barroso al Vertice di Bruxelles dell’11 febbraio, “affrontare insieme e con decisione le debolezze strutturali dell’Unione europea”. E, ricevendo al Berlaymont il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, poche ore dopo il varo di Europa 2020, riconosce che il problema “è il nazionalismo, non le istituzioni forti”. E, allora, quale strategia migliore per l’Europa 2020 di quella indicata da Napolitano in poche battute: “no ai direttori e all’unanimità paralizzante”?

Di Giampiero Gramaglia consigliere per la comunicazione dell’Istituto Affari Internazionali.

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