Euro, l’uscita è a destra
di Roberta Carlini, da sbilanciamoci.info
Dicono i sondaggi che in Francia il Front National di Marine Le Pen è il primo partito. Qualche settimana fa a Brignoles nelle elezioni cantonali il candidato lepenista ha trionfato col 53% dei voti: certo un dato piccolo, locale, ma che suona come inquietante conferma del trend indicato dai sondaggisti. Trend che dilaga, in Europa: l’ultradestra austriaca è oltre il 20%, quella olandese vicina al 17, i nazionalisti inglesi al 16. I neonazisti ungheresi al 14,8, quelli greci di Alba Dorata – adesso fuorilegge – al 7%. Mentre gli ultrà tedeschi nostalgici del marco hanno mancato per un soffio l’ingresso nel Bundestag (con il 4,7%), e il Movimento Cinque Stelle deve gran parte delle sue fortune elettorali alla sua linea populista anti-euro. Questo è il quadro dell’Europa che andrà al voto nel giugno dell’anno prossimo, per un parlamento che potrebbe venir fuori pieno zeppo di deputati eletti non per, ma contro l’Europa. Visto da una parte come il moloch burocratico e lontano che mette al rischio il benessere acquisito da paesi virtuosi, esponendoli al contagio di spendaccioni irresponsabili; dall’altra – nei pressi degli stessi spendaccioni irresponsabili, cioè i nostri pressi – come il centro propulsore delle politiche dell’austerità che hanno amplificato e cronicizzato la crisi dei subprime; e dall’una parte e dall’altra come una sistematica violazione di confini, quelli interni della sovranità come quelli esterni continuamente violati da migrazioni che la fortezza Europa non arresta.
Ai tempi del varo dell’unione monetaria, e poi della moneta unica europea, il fronte degli oppositori e critici era vario, diverso da paese a paese, e dentro c’era una parte della sinistra. Anzi, le sinistre si spaccarono, così com’era successo negli anni ’70 sullo Sme. Adesso invece l’opposizione all’euro è egemonizzata da pensieri e pratiche di destra. Cosa ci sta succedendo, nel profondo? E cosa si può fare per contrastare questa tendenza, se ancora è possibile? Tornare a ragionare sui difetti di costruzione dell’edificio europeo può essere utile, per capire dove e come intervenire. Alcune riflessioni e suggerimenti vengono da un recente dossier pubblicato da Economia & Lavoro, intitolato appunto “Crisi del debito o crisi dell’Europa?” nel quale è diffuso un saggio inedito di Fernando Vianello, scritto nel 2005; accompagnato da una introduzione di Andrea Ginzburg e due letture parallele, una delle quali, firmata da Henning Meyer, direttore della Social Europe Journal, analizza l’intreccio delle “tre crisi” europee (strutturale, politica e istituzionale), mentre l’altra, affidata a James Wickham, vede alla radice del disastro “la sostituzione dei legami sociali con il mercato”. Attraverso diversi percorsi e ragionamenti, tutti e quattro gli autori convergono verso un punto: l’assoluta coincidenza, nell’esito finale, tra la débacle dell’economia e quella della democrazia europea, e dunque un’emergenza ben più grave di quella – già grave – legata “solo” alla recessione più lunga che si sia sperimentata dal dopoguerra nel continente.
I biglietti del diavolo
“Nel Faust l’invenzione della carta-moneta è attribuita a Mefistofele. Freschi di stampa e del prodigio che li ha resi uguali all’oro, i biglietti del diavolo si spandono per il regno. Chi se ne impadronisce diventa ricco, e il buffone di corte dice ‘stasera stessa mi cullerò nel mio feudo’. Ma anche nella vita ordinaria la moneta può essere creata dal nulla (per questo non da chiunque). E con effetti non meno sconvolgenti. Al pari della moneta creata da Mefistofele, la moneta creata dalle banche internazionali attraversa il mondo come un vento impetuoso. Sconvolge modi di vivere e gerarchie sociali, alimenta speranze e premia le scommesse più ardite, genera un’onda di euforia che non di rado, ritirandosi, lascia dietro di sé macerie e desolazione”. Comincia così il saggio di Vianello (economista scomparso nel 2009, buon amico di Sbilanciamoci) che prosegue poi ragionando sui difetti di costruzione dell’architettura europea, e rintracciando il vizio d’origine nell’aver posto come unico pilastro la politica monetaria, ponendo in condizione ancillare tutte le altre politiche e, soprattutto, le istanze della società. “La politica monetaria (e del cambio), vista un tempo come qualcosa che si pone al servizio della società, è ora concepita come qualcosa che detta legge alla società, che fornisce un quadro di riferimento astratto entro il quale il corpo vivente della società deve comprimersi, come in una camicia di forza, non importa a quali costi”.
Nel saggio, Vianello spiega come e perché sia successo, e come la teoria economica abbia contribuito colpevolmente a questo disegno; mentre – aggiungiamo noi – molti politici sinceramente europeisti assecondavano la tendenza, pensando che le regole “stupide” (parola dell’ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi) servivano sì per ottenere il consenso tedesco, ma poi prima o poi sarebbero state aggirate o cancellate. Quel che è certo, oggi, è che la costruzione è semi-crollata, che il vento impetuoso descritto nel turbinio della cartamoneta di Mefistofele sembra già passato, soprattutto dalle parti di Atene, Roma, Lisbona, Madrid; e che, di fronte ai costi umani e sociali enormi di disoccupazione e povertà di massa, le élite europee che avevano partorito il disegno della moneta unica non trovano niente di meglio da fare che continuare a rinchiudersi nel fortino, mentre da fuori spingono le truppe degli scontenti, degli sconfitti, e di tutti coloro che pensano basti cancellare quella moneta, con un tratto di penna, per tornare a una mai esistita età dell’oro.
Dove sono gli europeisti?
“Nella sostanza, la crisi dell’Eurozona è una crisi politica”, si legge in un altro articolo del numero già citato di Economia e lavoro, scritto da Henning Meyer (economista che dirige il Social Europe Journal). Secondo il quale “il processo di integrazione europea condotto dalle élites pare aver raggiunto un limite invalicabile”: se ne esce solo con un salto in avanti della democrazia, l’alternativa è la disintegrazione. Riportando le istanze e le dinamiche sociali nell’arena della politica, e dando un governo democratico all’Europa, forse si è ancora in tempo per evitare che la frammentazione dei disagi, dei rancori, delle perdite sociali porti solo a una guerra di tutti contro tutti. Una guerra che è visibile nei risultati elettorali citati all’inizio: si tratta ovviamente di partiti diversi, che hanno diversa estrazione e cultura. Moltissimi tra gli elettori italiani del Movimento 5 Stelle non hanno niente in comune e non vorrebbero in alcun modo essere accostati ai neonazisti di Alba dorata e ai razzisti lepeniani. Eppure nel movimento di popolo che li porta in alto c’è qualcosa in comune: lo stesso Grillo ha detto, all’indomani dell’enorme successo elettorale del suo Movimento, che se non ci fosse lui in Italia arriverebbe l’estrema destra.
Ma c’è da chiedersi quanto c’è della destra, e anche di quella estrema, in molte delle pulsioni e delle politiche che si muovono nel magma dei 5 Stelle: cartina di tornasole è l’immigrazione, sulla quale all’indomani della strage di Lampedusa il capo del M5S ha manifestato platealmente e autoritariamente la linea. Che è nell’equazione straniero=clandestino, con tutto il seguito criminogeno e criminale che ne consegue. Più in generale, anche nei nostri Cinque stelle – come succede in modo più esplicito e respingente per le destre europee – l’ostilità all’esistenza stessa dell’euro, e insieme alla burocrazia e alle regole comunitarie si accompagna a un rinchiudersi nell’autodifesa del territorio e dei suoi confini da quel che viene da fuori; e dall’illusione che questa protezione potrebbe portare più ricchezza e benessere agli autoctoni.
Cercare di respingere questa ondata riaffermando i princìpi sbagliati su cui si è costruita l’unione monetaria è, più che inutile, controproducente. Impossibile sconfiggere i populismi anti-europei continuando a sfornare politiche impopolari e anti-popolari. Eppure è quello che coloro che si dichiarano europeisti, per esempio in Italia, continuano a fare, presentandosi dunque ancora una volta come difensori di uno status quo insostenibile: quello dei patti di stabilità, dei pareggi di bilancio, delle regole contabili che sono diventate l’unico linguaggio comune d’Europa. Mentre invece è a carico di quanti non rinunciano all’idea di una politica progressiva, l’onere di dimostrare che un’altra strategia europea è possibile, e assai più conveniente, per chi oggi ha meno, della chiusura dentro frontiere e identità sempre più anacronistiche. Ma chi si incarica di questo compito? Colpisce, e forse fa più male delle scorciatoie populistiche, l’assenza di questo livello della discussione nella sinistra, come se fosse per noi tutti impossibile pretendere un’altra Europa per un’altra politica, più vicina a quella ideale. Persino adesso, quando è a tutti visibile e plateale il fallimento dell’Europa reale.
(31 ottobre 2013)