Economia e il senso di colpa del capitalismo.
All’Etica universalistica della Chiesa in difesa dei più deboli – questo il significato profondo dell’appello del Papa al senso di responsabilità di politici e imprenditori di fronte alla crescente disoccupazione – una parte del mondo dell’impresa ha risposto con il moralismo degli uomini di buone intenzioni che, per dirla con Benedetto Croce, «sono nient’altro che ipocriti». È ipocrita il Capitale che denuncia carenza di etica nell’economia di mercato, si autodefinisce «sociale» e demonizza il capitalismo anglosassone «orientato al profitto ». Persegue però questo profitto con analogo accanimento al riparo dalla concorrenza, grazie alla non contendibilità delle imprese – che ne alimenta e protegge le inefficienze -e al corporativismo delle professioni che, associato al conservatorismo dei sindacati, ostacola l’ingresso ai giovani e penalizza il merito. Sopravvive, inoltre, come rendita – concessioni e licenze di Stato- e con i sussidi governativi alla vendita di prodotti poco competitivi sul mercato e fa pagare a correntisti e imprese servizi bancari fra i più cari d’Europa. L’eticizzazione della politica e dell’economia, da parte della Chiesa, è nell’ordine delle cose di un sistema teocratico; è, da parte di uomini politici e partiti, la teoria e la prassi dei Paesi totalitari.
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Ma nel mondo dell’impresa è una contraddizione in termini. La rivoluzione marginalista ha introdotto, nell’apprezzamento di un bene, i concetti «qualitativi» (soggettivi) di utilità e di scarsità, rispetto a quello «quantitativo » (oggettivo) di valore- lavoro dell’economia classica. Ma, con il concetto di «utile», ha anche teorizzato il ruolo della scelta e dell’interesse nell’economia, distinguendo la volontà «pratica», che coincide col fine individuale, da quella «morale» che trascende in un fine universale. «Il fatto economico -scrive Croce – è l’attività pratica dell’uomo, in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale».
Ma, attenzione: non indipendentemente dalle regole né dalla naturale socievolezza degli uomini (la «simpatia» di cui parla Adam Smith). Nel 1765, un pensatore liberale finlandese, Anders Chydenius, già ne aveva parlato, scrivendo che la nazione «è costituita da una moltitudine di persone che si sono unite per assicurarsi la propria prosperità e quella dei propri discendenti sotto la protezione del governo (…). I nostri bisogni sono vari e non c’è mai stato nessuno in grado di procurarsi anche i beni di prima necessità senza l’aiuto di altre persone, e non esiste quasi nessuna nazione che non abbia bisogno delle altre» (La ricchezza della nazione, liberilibri). In definitiva, la responsabilità «sociale» dell’imprenditore sta tutta qui: nel fare il proprio mestiere all’interno di una cornice normativa che ne massimizzi -disciplinandone la libertà di intrapresa – le capacità. Che, nell’era della globalizzazione, si traducono in innovazione e competitività.
Di Piero Ostellino editorialista Corriere della Sera