E se nel mirino finisce anche la Spagna?
Mentre le sorti della Grecia restano in forse e qualcuno già si rassegna all’ipotesi che il paese faccia bancarotta, molti cominciano a chiedersi quale sarebbe la prossima vittima. Tralasciamo l’Irlanda che ha adottato un programma di risanamento molto credibile e non sembra essere per ora nel radar della speculazione internazionale. Tralasciamo l’Italia nella speranza che Giulio Tremonti abbia ragione e che la sua gestione dei conti pubblici scoraggi gli speculatori. Restano il Portogallo e la Spagna. Il primo ha un debito pubblico e privato terribilmente elevato (233 per cento del prodotto interno lordo, secondo Wolfgang Münchau, commentatore economico del Financial Times), ma ha un pil pari all’1,8 per cento di quello dell’intera Eurozona e non è quindi una preda succulenta. Diverso, invece, è il caso della Spagna: un paese di 45 milioni di abitanti con un pil pari a 1.350 miliardi di dollari (11,7 per cento dell’Eurozona) e un reddito individuale annuo di poco inferiore a 30 mila dollari. Che cosa accadrebbe se la speculazione, dopo avere inghiottito la Grecia, decidesse di aggredire la Spagna, alla quale Standard & Poor’s ha appena abbassato il rating sul debito (sceso ad AA)?
La speculazione non è stupida e cerca di non correre troppi rischi. Quando parte alla ricerca di una nuova vittima, la sceglie fra i paesi che sembrano meno capaci di riconquistare la credibilità e la competitività con un serio programma di riduzione della spesa pubblica e con misure che lascino intravedere una rapida ripresa economica. Però per gli investitori internazionali il rischio Spagna è superiore a quello della Turchia (il sorpasso è avvenuto lunedì 26 aprile). Forse il miglior modo per valutare il «rischio Spagna» è quello di confrontare la sua crisi con quella della Grecia.
Quella greca appare recente perché è stata per molto tempo nascosta agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Ma è iscritta da sempre nelle caratteristiche di un paese che ha vizi non sconosciuti agli italiani: un tasso di corruzione molto elevato, una diffusa criminalità e un sistema politico sfacciatamente clientelare dove il pubblico denaro viene utilizzato per ottenere voti e consenso. Il problema, in altre parole, non è soltanto contabile.
Per uscire dalla crisi la Grecia deve cambiare la cultura dei suoi cittadini, costringere la propria funzione pubblica a una severa cura dimagrante, togliere denaro ai settori parassitari del paese e indirizzarlo verso attività economiche in cui i greci, del resto, hanno dimostrato di avere intelligenza, fantasia e spirito d’iniziativa. È lecito chiedersi se il governo socialista di George Papandreou abbia la forza per avviarsi su questa strada. Il cancelliere Angela Merkel non ha torto quando osserva che il programma con cui la Grecia spera di uscire dalla crisi non è ancora sufficientemente rigoroso.
Il caso della Spagna è diverso. Il paese ha una struttura industriale meno avanzata di quella dell’Italia, ha commesso l’errore di scommettere, per il proprio sviluppo, sulla continua crescita del settore immobiliare e ha un alto debito del settore privato. Però ha una buona burocrazia, con un forte senso dello stato, non è clientelare, non ha criminalità organizzata, ha un buon sistema bancario e ha fatto, a differenza di altri paesi mediterranei, un eccellente uso dei fondi strutturali comunitari.
Esiste poi un altro fattore che gioca a suo vantaggio. Le banche tedesche sono esposte verso la Spagna per una somma pari a 238 miliardi di dollari, una cifra quasi cinque volte quella delle loro esposizioni verso la Grecia e verso il Portogallo. E non hanno alcuna intenzione di perdere i loro soldi.
Di Sergio Romano opinionista Panorama