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Brasile e Turchia: le classi medie in piazza

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In apparenza non c’è nulla che leghi le proteste in corso in Brasile e in Turchia. Diversa è la scintilla, intanto. Nel primo caso tutto è partito con l’aumento dei biglietti dei mezzi pubblici; nel secondo, con lo sradicamento di un parco. Cambia anche l’allestimento di scena delle rivolte. In Brasile si è protestato a macchia di leopardo, in tutte le città. In Turchia le manifestazioni, salvo qualche scossa nella capitale Ankara e in qualche altro centro urbano di peso, sono rimaste sostanzialmente confinate a Istanbul, dove piazza Taksim ha confermato la sua tradizionale vocazione. Dal pogrom antigreco del 1955, al massacro del primo maggio 1977, quando morirono più di trenta attivisti di sinistra; dallo storico Gay Pride del 2003, fino a #Occupygezi: su questo slargo passa la storia repubblicana della Turchia.

 

Eppure, malgrado queste discordanze, evidenti, le proteste brasiliana e turca hanno un’analogia forte, che va oltre il ruolo ancora una volta decisivo dei social network, incredibilmente capaci di mobilitare. È che i protagonisti delle manifestazioni di Rio de Janeiro, San Paolo, Brasilia, Ankara e Istanbul sono, in buona misura, esponenti di quella classe media che, tanto nell’uno che nell’altro paese, ha allargato il proprio perimetro nel corso dell’ultimo decennio.

 

Sia il Brasile che la Turchia hanno vissuto in questo periodo congiunture espansive notevoli. E il caso vuole che in entrambi i contesti la cavalcata sia iniziata nel 2002. In quell’anno nel paese sudamericano salì al potere Lula e in Turchia l’Akp, il partito di Recep Tayyip Erdogan, vinse le elezioni. Da allora è stata una marcia trionfale. Il Brasile è cresciuto a un tasso medio del 3% e il 52% dei suoi cittadini, secondo l’Ocse, può ormai vantarsi di essere parte della classe media. Impressionante anche il dato turco: dal 2002 il Pil pro capite è triplicato, liberando dalla povertà vasti strati di popolazione e offrendo una gamma di opportunità straordinaria, rispetto al passato.

 

Ora, come quasi sempre accade, c’è l’impressione di essere di fronte a una surge politica della classe media. Le recenti proteste indicano che a prescindere dall’eterogeneità di questo segmento sociale – ci sono i progressisti e i conservatori, i liberi professionisti e gli impiegati pubblici, i laureati e quelli che si sono fatti da soli – le classi medie brasiliana e i turca chiedono ai loro governi di fare a livello sociale e politico quello che è stato fatto in campo economico. Pretendono riforme, aperture, liberalizzazioni.

 

Certo, poi i bersagli – ecco che torniamo alle differenze – non sono gli stessi. In Turchia ci si scaglia contro il primo ministro Recep Tayyip Erdogan, accusato di deriva autoritaria, compressione dei diritti, politiche islamizzanti. I brasiliani scesi in piazza, una vera e propria valanga umana, ce l’hanno invece con la classe politica nel suo complesso e denunciano la scarsa qualità degli ospedali e delle scuole, la piaga della corruzione, l’aumento dell’inflazione, le buche nelle strade, le spese sostenute in vista del mondiale di calcio dell’anno prossimo e della Confederations Cup, che si gioca in questi giorni. Sembra, rispetto alla Turchia, di assistere più che altro a una richiesta di riequilibrio sociale e redistribuzione. Il target non è specificatamente la presidente della repubblica Dilma Rousseff.

 

In ogni caso né quest’ultima, né Erdogan s’aspettavano fenomeni sismici come questi. Né se lo aspettava Vladimir Putin, che dalle contestate elezioni per la Duma (dicembre 2011) al suo terzo insediamento al Cremlino (maggio 2012) ha assistito alla sollevazione della borghesia urbana di Mosca, scesa in piazza a reclamare trasparenza, correttezza amministrativa, ricambio politico e una vera competizione elettorale.

 

Anche il caso russo trova nella sostenuta crescita economica degli ultimi anni la molla che ha portato la classe media all’acquisizione di una coscienza politica e a rivendicare dosi più massicce di libertà. Nel corso dell’ultimo anno la risposta di Putin è stata prevalentemente repressiva. Pure Erdogan, almeno a giudicare dalle cronache, sembrerebbe intenzionato a usare più il bastone della carota (gli esperti dicono però che è un rischio che non può permettersi). La leadership brasiliana, invece, parrebbe orientata a un approccio più cauto e aperto alle istanze provenienti dal basso. Le risposte alle proteste, dunque, sono come le scintille iniziali. Differiscono tra loro. Resta comunque il fatto che la classe media, in Brasile, Turchia e Russia, s’è auto-sdoganata. È vigile. I governi delle potenze emergenti – Cina e India incluse – non possono più “vendere” ai propri connazionali il solo successo economico.

Di Matteo tacconi @mat_tacconi (Europa)