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Berlusconi in Israele fuori tempo massimo

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Della recente visita di Silvio Berlusconi in Israele sono stati discussi soprattutto le implicazioni di politica internazionale. Minore attenzione è stata dedicata al suo significato per la politica estera italiana – l’asserito spostamento da una posizione percepita come filo-araba e filo-palestinese a una più equilibrata – e per la politica interna – la volontà di rimarcare la distanza da una “sinistra” presentata come anti-israeliana e attardata su posizioni “antimperialiste”.

Schizofrenia
Come di consueto, Berlusconi ha manifestato grande amicizia e ammirazione per Israele, sottolineando il suo carattere democratico e la sua natura europea, che lo qualificherebbe, secondo il Presidente del Consiglio, per l’entrata nell’Ue, e ha detto cose scontate sull’Iran e sul terrorismo internazionale, ma in una intervista a Haaretz ha anche preso una posizione sulle colonie ebraiche perfettamente in linea con quella europea, che vale la pena di riportare per intero:

“La politica degli insediamenti di Israele può costituire un ostacolo per la pace. Voglio dire al popolo e al governo israeliani, da amico e con la mano sul cuore, che persistere su questa strada è un errore. Ho accolto con favore il coraggioso annuncio del primo ministro Netanyahu sul congelamento per dieci mesi [della costruzione degli insediamenti]. Non sarà mai possibile convincere i palestinesi delle buone intenzioni di Israele se quest’ultima continua a costruire in territori che devono essere restituiti come parte di un accordo di pace”.

Questa dichiarazione – anche se bilanciata da una successiva, in cui dà atto ad Israele della difficoltà a trattare con gente che brucia le sinagoghe, lancia missili sulla popolazione ed è preda di lotte intestine – allinea il governo Berlusconi alla posizione che prevale in Europa. Lo allinea anche alle posizioni dell’amministrazione americana (e questa potrebbe essere la molla di fondo che l’ha fatta maturare).

Ma, al di là della retorica, non pare che questa posizione italiana abbia avuto un ruolo effettivo nei colloqui fra i due governi. È stata fatta amichevolmente in via preliminare, ma nei colloqui si è parlato d’altro. Insomma, l’Italia ritiene che le colonie ebraiche impediscano la pace, ma ciò non sembra destinato ad avere concrete conseguenze sulla sua politica.

Questa sorta di schizofrenia non riguarda però solo il governo italiano, ma anche gli altri governi europei e quello statunitense. Tutti continuano a dire, più o meno amichevolmente, a Israele di porre un termine alle colonie per consentire la pace. Alcuni lo fanno in via puramente declaratoria, altri, come l’amministrazione Obama nel corso del 2009, nel contesto di una strategia politica. Ma proprio l’amministrazione Obama, arrivata al dunque, non ha avuto la forza o la possibilità di ottenere da Israele la fine della colonizzazione.

La chimera dei due Stati
Obama ha provato ad afferrare la testa del serpente, rilanciando l’idea di un accordo israelo-palestinese basato sulla creazione di due stati, ma ha dovuto presto abbandonare il tentativo. Ne è scaturito un senso generale di impotenza e si sono rafforzati i dubbi sulla praticabilità di questa soluzione.

Oggi risulta evidente che, a parte la minoranza palestinese che ha in mano l’Alta Autorità e una piccola minoranza israeliana, nessuno veramente vuole i due stati. Non li vuole Israele, che si sente sicura e soddisfatta nel suo vicinato del Levante e guarda all’Iran come al suo vero problema. Non lo vuole Hamas, soddisfatto del suo emirato a Gaza, purché liberato dall’attuale assedio, e con il miraggio di una “città di Dio” la cui realizzazione sfugge ai criteri della politica mondana.

Credere, d’altra parte, che Abu Abbas e Salam Fayyad, rispettivamente presidente e primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese, possano costituire uno stato palestinese da affiancare a quello israeliano non ha senso, perché una non trascurabile parte dei palestinesi vede i due come quasi usurpatori, sostenuti dalle “baionette” di Dayton e dal denaro dell’Occidente.

Abbas e Fayyad, con i loro piani di promozione di un benessere economico separato dal processo politico, sono destinati a incontrarsi con l’idea di “pace economica” di Netanyahu (e, come ha notato giustamente Janiki Cingoli, con il Piano Marshall che Berlusconi ha nuovamente sfoderato in Israele), cioè con la divisione dei palestinesi e uno status di autonomia personale in Cisgiordania – come quello che aveva in mente l’ex-premier israeliano Menachem Begin. Tutto questo configura altri cent’anni di gestione del conflitto, nessuna risoluzione, e men che meno i due stati di cui parla la Road Map.

Tempo scaduto
La posizione che Berlusconi ha preso sulle colonie può apparire strumentale (il passaggio da Bush a Obama; l’obiettivo di tagliare l’erba sotto i piedi all’opposizione interna italiana; etc.), ma bisogna rallegrarsene, perché allinea più esplicitamente l’Italia sulle posizioni europee. Tuttavia, essa è tanto inattuale quanto lo è ormai la dottrina ufficiale dell’intero Occidente sulla risoluzione del conflitto israelo-palestinese: una dottrina che riposa su premesse che non esistono più, o a cui non si ha la forza e la volontà di dar concreto seguito.

Non si può certo rimproverare solo l’Italia e il governo Berlusconi per non aver proposto qualche idea più concreta su come uscire dalla drammatica “impasse” in cui oggi si trova il conflitto israelo-palestinese. È un problema che investe tutti, a cominciare dai leader dell’Occidente. Si deve però evitare di credere, come fa larga parte dei commentatori italiani, che con le sue dichiarazioni il presidente Berlusconi abbia assunto un’importante posizione politica o contribuito davvero a smuovere le acque: ha detto la cosa giusta quando ormai sarebbe il caso di dire qualche altra cosa che serva davvero a far ripartire il processo di pace.

Di Roberto Aliboni vicepresidente dello IAI.

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