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Berlusconi-Fini, i costi della guerriglia

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E’ finita un’epoca: non solo per il Pdl ma per il centrodestra. L’immagine di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini che si accusano in pubblico, sotto gli occhi dei dirigenti del partito e del Paese, è a suo modo storica. Archivia sedici anni di sodalizio politico, perché quello personale si era guastato da tempo. E getta un’ombra sul futuro della maggioranza, del governo e della stessa legislatura. Da oggi comincia un rapporto che chiamare coabitazione è eufemistico: siamo alla vigilia di una guerriglia quotidiana, anche in Parlamento, capace di destabilizzare il Paese.

Quella a cui si è assistito a Roma, durante la direzione del Pdl, è stata una rottura esasperata, viscerale fino a sfiorare lo scontro fisico. È la conseguenza di un dialogo impossibile fra due visioni e due personalità ormai agli antipodi, non più complementari. E produce una frattura che Berlusconi vuole certificare, perché rifiuta l’idea di un Pdl lacerato dalle correnti; e che Fini cerca di tamponare, per non farsi spingere fuori dal partito e dalla presidenza della Camera: forse anche per dimostrare che il Cavaliere non è più così onnipotente.

Può darsi che l’ex leader di An ottenga almeno questo risultato: a carissimo prezzo, però. Le sue parole sono calate su una direzione del Pdl insieme nervosa e ostile: umori che si riflettevano fedelmente nei gesti impazienti del premier. Per il modo polemico col quale sono state allineate, le critiche finiane hanno mostrato non tanto le sue ragioni, ma la distanza ormai siderale da un partito nel quale dopo le Regionali di marzo si sono creati equilibri dai quali è escluso. Il Pdl ha ascoltato e osservato Fini con una diffidenza e un pregiudizio radicati, perché ormai viene percepito dal centrodestra come un apolide.

Il suo scarto sembra soprattutto la reazione a un’alleanza con la Lega che lui subisce, e alla quale reagisce con uno smarcamento plateale ed esagerato: quello che in gergo calcistico si chiama fallo di frustrazione. L’irritazione berlusconiana fa capire che si tratta di un colpo doloroso, anche per le allusioni pesanti sulla giustizia. Quando il premier accusa i finiani di esporre il Pdl al ludibrio pubblico, dà voce a una preoccupazione diffusa. Dopo una vittoria elettorale netta, è difficile spiegare la rissa nello schieramento vincente mentre c’è una crisi economica grave: suona come un comportamento irrazionale e irresponsabile.

Ma la minoranza sembra seguire una logica che ignora l’accusa di puntare al «tanto peggio tanto meglio ». Fini certifica col suo strappo la propria marginalità nel Pdl, pur di lesionare l’immagine del Cavaliere come amalgama della maggioranza: anche se per paradosso rafforzerà la Lega che vorrebbe arginare. Sono i frutti di un antiberlusconismo di destra che per ora rimane annidato nelle pieghe del Pdl; ma che difficilmente può sopravvivere in un contesto che logora tutti. A questo punto, Fini non ha nulla da perdere; Berlusconi e il Paese, molto di più.

Di Massimo Franco editorialista Corsera

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