Bambini nella polvere
Simona Pari racconta l’infanzia di Kabul. Corrispondenza pubblicata sul sito dell’Arci.
San Marino, 8 settembre 2004
Ecco una testimonianza dell’impegno e della sensibilità di Simona Pari a favore dei bambini. Si tratta di una corrispondenza da Kabul che Simona ha spedito al sito dell’Arci.
Per le strade e i vicoli del centro, nei sobborghi, nei mercati, c’è qualcuno che sta pregando perché la tua anima sia salva e la tua vita sana e felice. Chi lo fa non è un mullah che diffonde la voce di dio attraverso altoparlanti gracchianti. Ma uno delle migliaia di spandii, i bambini tra i 5 e i 12 anni, che si aggirano con in mano un piccolo vasetto di metallo fumante, bruciando carbonella presa in prestito dai fornelli che per strada arrostiscono spiedini di montone. Qui sono un’istituzione. E quella dello spandii è una tecnica: si avvicinano e ti affogano nel fumo dell’attrezzo profano. Se lo annusi non puoi fare a meno di dargli dei soldi, altrimenti la tua felicità è compromessa. Quel fumo infatti sale al cielo, e quando arriverà a destinazione, Lui saprà se avrai pagato una ricompensa per le preghiere.
Taj ha sette anni, una calzamaglia rigata, le scarpe bucate, gli occhi a mandorla da hazara, è magrissimo. Cammina quasi incantato in una strada polverosa delimitata da container trasformati in botteghe di meccanici e ferrivecchi. Poi si risveglia, aggressivo: la concorrenza tra spandii è feroce e bisogna difendere il proprio territorio. I suoi genitori sono morti e lui vive con gli zii. Il mestiere più difficile: deve provvedere a se stesso e quando gli va bene a fine giornata riesce a mettere insieme anche un dollaro. Una vita senza giochi e senza caramelle, la sua. Senza sosta, d’inverno sotto la neve, d’estate sotto il sole. Di giorno se è fortunato riesce a bere un po’ di tè e mangiare un pezzo di roat.
Farida, capelli lunghi, il vestito di velluto rosso, si aggira per Chicken Street, la via dei macellai, costellata di carcasse di manzo appese e gettate per terra, in attesa di essere squartate, e di pellicce di coniglio e pecora, appese nelle vetrine dei negozi di lusso. Farida, 10 anni, corre dietro a un suo coetaneo che spinge faticosamente un carretto traboccante di teste di montone. Poi allunga la mano con le unghie rosse di smalto per chiedere l’elemosina. Questa è la sua strada, qui conosce tutti. Stasera, sulla via di casa, passerà come sempre davanti al cinema Park. Lei al cinema non ci è mai andata, e non ci andrà neanche oggi. Ma tornerà nella sua casa senza finestre a Karti Sai, dove se ti affacci vedi solo muri ricamati dai mitragliatori e palazzine sventrate dalle bombe, con un sacco pieno di patate e farina. La cena per la mamma e i 5 fratelli.
Di bambini di strada Kabul è piena. Si calcola che nel 1999 a Kabul fossero almeno 50mila, tra gli 8 e i 14 anni, comprese le bambine. Costretti ad elemosinare nella polvere, a cercare qualcosa di commestibile nella spazzatura, a raccogliere pezzi di legno o di metallo per le strade, lustrare scarpe, lavare macchine, riparare biciclette, vendere the, banane, pane e preghiere. Per un destino secco e ineluttabile, questo enorme e desolante esercito invisibile di bambini di strada continua a fare nuove reclute. E mentre il rombo della guerra si avvicina e si allontana col capriccio dei decenni, loro sono sempre lì, in cerca di qualche afgano (la moneta locale) da portare a casa, per mettere insieme qualcosa da mangiare per cena, per famiglie intere, magari di dieci persone.
Molti di loro sono orfani di padre, altri hanno genitori mutilati o disabili. Altri sono completamente soli. E devono cavarsela. In molti casi si tratta di bambini che vivono a Kabul, in campi per sfollati (ce ne sono anche in centro).
A loro non è riservata nessuna alternativa: non sanno cosa sia un’altra vita, non conoscono la scuola, ignorano cosa sia il gioco. Già da piccolissimi, i bambini in Afghanistan sono destinanti a contribuire al mantenimento della famiglia. Nelle zone rurali, vengono adoperati per badare il bestiame o per andare a prendere legna e acqua. Nelle zone urbane, prima della guerra, in molti lavoravano nelle industrie e nelle botteghe. Ora che molte attività produttive e commerciali hanno cessato di esistere, la maggior parte dei bambini lavora per strada. Per circa 12 ore al giorno. Senza alcuna tutela, perché lavorano completamente soli.
Il lavoro per strada, già di per sé pericoloso, espone i bambini a molti rischi: dalle mine inesplose, agli abusi sessuali, al consumo di droga (soprattutto hashish, charse e poppy), a violenze di ogni tipo. Sul lungo periodo, inoltre, aumenta la probabilità che questi bambini vengano coinvolti in network criminali e le bambine in attività di prostituzione (visto che la loro povertà diminuisce la probabilità che ricevano proposte di matrimonio). Il guadagno medio di un bambino che lavora per strada oscilla tra 20mila e 50mila afgani, neanche un dollaro.
Tre organizzazioni, supportate da Save the Children, da anni stanno occupando lo spazio lasciato vuoto dal collasso dello stato, fornendo assistenza, educazione e talvolta cibo ai bambini di strada.
Simona Pari