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Analisi comparata dello Scudo fiscale

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Il 3 ottobre 2009 è stato convertito in legge il D.L. 1º luglio 2009, n. 78, recante, tra gli altri provvedimenti, disposizioni relative al rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute fuori dal territorio dello Stato: il cosiddetto “scudo fiscale”. La norma prevede l’istituzione di un’imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali detenute fuori dal territorio italiano alla data del 31 dicembre 2008, a condizione che esse vengano rimpatriate in Italia, se detenute in paesi extra-Ue, oppure, alternativamente, regolarizzate (lasciandole all’estero) o rimpatriate, se stabilite in paesi dell’Unione Europea.

Il rientro di capitali è stato adottato da molti paesi con lo scopo di raggiungere due obiettivi: ricavare un extra-gettito fiscale, per fronteggiare le spese straordinarie dovute alla crisi finanziaria, ed inasprire la battaglia contro i paradisi fiscali, per dare un forte segnale di legalità alla finanza mondiale, consentendo il rientro di capitali proprio in un momento in cui l’affidabilità dei paesi off shore è messa in forte discussione. Nel breve periodo lo “scudo fiscale” può rappresentare un mezzo valido per raggiungere questi obiettivi, ma nel lungo termine potrebbe rivelarsi una scelta dai risultati incerti. Infatti, come ha affermato Moritz Kraemer, analista di Standard and Poor’s, ai margini dei lavori annuali dell’Fmi e della Banca Mondiale, “le misure di rimpatrio di capitali se si ripetono risultano dannose, perché impediscono la formazione di una base di gettito fiscale stabile”. A breve termine sono misure che portano un gettito considerevole, ma nel lungo periodo danneggiano la credibilità del Fisco rischiando di far diventare strutturali i problemi. Il Governo italiano, che è già alla sua terza edizione dello scudo fiscale, ha adottato un atteggiamento molto accomodante nei confronti di coloro che vogliono usufruirne.

L’Italia ha garantito le condizioni più favorevoli tra quelle stabilite da tutti gli altri stati membri dell’Unione europea, finendo per far assomigliare il provvedimento più ad un’amnistia che a un rientro di capitali. La norma italiana prevede che i soggetti residenti nel nostro Paese possano rimpatriare o regolarizzare i capitali detenuti irregolarmente all’estero versando al Fisco un’imposta straordinaria pari al 5% del valore dei capitali stessi, giovandosi del completo anonimato e potendo contare sulla preclusione di accertamenti tributari e contributivi a loro carico sugli imponibili corrispondenti alle somme oggetto di rimpatrio o regolarizzazione. Inoltre, unicum in Europa, chi aderisce allo scudo non è punibile per i reati di dichiarazione infedele o fraudolenta, omessa dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili. Infine, l’emersione fatta dall’amministratore, o da chi ha il controllo di una società, non può essere utilizzata neanche a sfavore della società stessa. Ad una prima analisi, lo scudo fiscale varato dal Governo italiano appare criticabile sotto molti punti di vista. Con un livello di evasione fiscale tra i più alti d’Europa, calcolato nella misura del 24,2% del PIL (Commissione parlamentare di vigilanza sull’Anagrafe tributaria nella seduta del 15 luglio 2009), l’Italia avrebbe bisogno di norme tributarie più rigide e controlli più severi che possano conferire maggior credibilità al Fisco, piuttosto che un rientro di capitali vantaggioso soprattutto per contribuenti infedeli ed evasori. Il provvedimento, però, non va inquadrato solo nell’area della politica fiscale, ma soprattutto nel più ampio contesto di politica economica volta al rientro dei capitali in Italia.

Il Governo non tende ad un reale e concreto incremento del gettito tributario, ma mira piuttosto a mettere a disposizione dei cittadini (ed in particolare delle piccole e medie imprese) risorse finanziarie, altrimenti non acquisibili, in un momento di particolare crisi, al fine di favorire gli investimenti e, quindi, la ripresa economica. Come scrive Paul Betts in un commento sul Financial Times, “lo scudo fiscale può avere effetti positivi solo nel caso in cui riesca ad aiutare gli imprenditori italiani a regolarizzare la loro situazione fiscale e a iniettare nuovo capitale nelle loro aziende durante l’attuale credit crunch”.

Secondo l’Associazione Italiana dei Private Bankers, i patrimoni detenuti all’estero da italiani, che potrebbero essere rimpatriati o regolarizzati, ammontano a 278 miliardi di euro. La parte più rilevante, pari a circa 125 miliardi, sarebbe detenuta in Svizzera, altri 86 miliardi si troverebbero in Lussemburgo ed il resto in altri paesi (compresi oltre 2 miliardi nella Repubblica di San Marino). Le stime preliminari, elaborate dallo Studio Bernoni di Milano, sulla quantità di capitali che effettivamente i residenti italiani intenderebbero far rientrare per mezzo dello scudo fiscale, prevedono un incasso per l’erario italiano compreso tra i 3 e i 4,5 miliardi di euro: un importo considerevole e decisamente superiore rispetto a quello che otterranno gli altri Paesi che hanno adottato il rientro di capitali.

Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno adottato una disciplina molto più rigida e punitiva nei confronti degli evasori rispetto a quella italiana. In questo modo hanno dimostrato maggior rispetto nei confronti di coloro che hanno contribuito alla spesa pubblica, conformandosi diligentemente agli obblighi fiscali, e hanno dato dimostrazione di avere un’Amministrazione finanziaria non disposta a scendere a compromessi con gli evasori. D’altra parte, però, in questi Paesi l’adesione al rientro di capitali sarà decisamente scarsa e il beneficio per le casse dell’erario rischia di essere davvero minimo. Negli Stati Uniti il rientro di capitali (Revised IRS Voluntary Disclosure Pratic) consiste in un’autodenuncia volontaria in forma non anonima, che non garantisce l’immunità, qualora il reddito tragga origine da fonti illecite. Il contribuente deve cooperare con Internal Revenue Service per determinare correttamente il proprio debito tributario e deve comunicare gli estremi dei suoi conti esteri e le modalità con cui ha evaso. Oltre al pagamento delle imposte ordinarie dovute, la legge prevede il versamento di un’imposta dell’1,75% all’anno sul capitale inizialmente espatriato, una sanzione pari al 20% dell’imposta e una addizionale del 20% sul capitale iniziale aumentato degli interessi virtuali riscossi nei paradisi fiscali. In Francia la Regularisation des avoirs à l’etrangèr è disposta in via amministrativa. Non è consentito l’anonimato ed è richiesto il pagamento immediato delle imposte dovute in relazione ai capitali, nonché degli interessi e delle sanzioni amministrative. Le sanzioni vanno concordate con l’amministrazione e possono arrivare fino all’80% delle imposte evase. Come è stato specificato nel testo di legge, la regolarizzazione non è un’amnistia fiscale, infatti evita solo le conseguenze penali e comporta normalmente una riduzione delle sanzioni amministrative.

Condizione necessaria per accedere alla regolarizzazione è che le somme non provengano da attività illegali, criminali e terroristiche. Nel Regno Unito, la HM Revenues & Custums (HMRC), l’amministrazione finanziaria di sua Maestà, consente ai contribuenti una New Disclosure Opportunity, che fa seguito alla Offshore Disclosure Opportunity varata del 2007. L’HMRC non ammette l’anonimato, anzi ha previsto la pubblicazione dei nomi dei contribuenti che hanno commesso gli illeciti più rilevanti. Per accedere alla New Disclosure Opportunity è necessario il pagamento di tutte le imposte sui redditi (più gli interessi) relative ai rendimenti delle attività non dichiarate per i 20 anni precedenti, ridotti a 10 in caso di attività detenute in Liechtenstein, con cui è stato firmato un accordo ad hoc. Le sanzioni sono ridotte al 10% delle imposte dovute ed è necessaria una piena autodenuncia di tutti i debiti fiscali non dichiarati, non solo di quelli relativi a conti o attività offshore. A differenza di altri paesi, di fronte alla necessità di aiutare il Paese a reagire alla crisi finanziaria ed al debito pubblico in aumento, che ad agosto 2009 ha toccato quota 1.757.534 miliardi di euro, il Governo italiano ha dunque optato per il male minore, attuando un rientro di capitali molto conveniente per gli evasori, ma assai simile ad un’amnistia: decisione condivisibile dal punto di vista politico-economico, molto meno da quello della politica fiscale.

Di Federico Leone (geopolitica.info)