Afghanistan:: Obama verso la retromarcia
Gli ultimi sviluppi delle operazioni in Afghanistan, dopo le giuste cautele espresse dal comandante sul campo, generale David Petraeus, e la conferma da parte di Barack Obama del ritiro “non negoziabile” a partire dal 2011, sollecitano qualche ulteriore riflessione. Nonostante tre cambiamenti di strategia e gli sforzi compiuti dall’America, dalla Nato e dagli altri volonterosi alleati, la situazione in teatro non sembra soddisfacente. Le buone notizie arrivano con il contagocce, a meno che non decidiamo di includervi il gesto di appeasement verso i talebani voluto da Petraeus e da Hamid Karzai con la scarcerazione, a Bagram e a Kabul, di 262 guerriglieri islamici.
La scena mediatica continua, in realtà, ad essere dominata ogni giorno dalle notizie cattive, quali lo stillicidio dei morti della coalizione – se ne contavano già 443 a metà agosto 2010, rispetto ai 521 di tutto il 2009 e ai 295 del 2008 – la strage di dieci medici, l’impiccagione di un “bambino-spia” e la lapidazione degli adulteri. Anche notizie ufficialmente buone, come l’annuncio di Petraeus che l’esercito afgano ha conseguito con ben quattro mesi di anticipo l’obiettivo di 135 mila effettivi, hanno il sapore di un contentino consolatorio o di una prematura giustificazione del disimpegno obamiano.
Problema politico o militare?
D’altra parte, che il problema non fosse solo militare lo si sapeva. Gli aspetti “politici” hanno acquisito una crescente importanza, e in questo contesto le questioni di politica interna sembrano influenzare le decisioni più delle esigenze di politica estera. Infatti, specie negli Stati Uniti, che dopo le defezioni già annunciate temono di restare prima o poi con il classico cerino tra le dita, stanno fiorendo, da un po’ di tempo, nuove opzioni. Non dimentichiamo che negli Usa il 2010 e il 2012 sono anni di elezioni e che se l’Iraq – dal quale le ultime brigate combattenti si stanno frettolosamente ritirando – era la guerra di Bush, quella in Afghanistan è dichiaratamente la guerra di Obama.
Da qui l’evidente nervosismo del presidente – il Comandante in Capo – che si riflette in un rapporto non proprio sereno con i suoi generali. Né si può dimenticare chi è Barack Obama, come e da chi è stato eletto, qual è la sua estrazione politica e culturale e quale duro contrasto debba affrontare ogni giorno tra ciò che idealmente vorrebbe – anche in termini di priorità – e ciò che invece le contingenze lo obbligano a fare. Probabilmente, per i generali non prova molto trasporto e ancora meno per la politica militare, di sicurezza e difesa. Ma è costretto ad occuparsene, ed essendo l’America un paese sempre in guerra in qualche parte del mondo, i generali, suo malgrado, gli sono indispensabili. Di questa scarsa simpatia nei loro confronti i militari si sono ormai resi conto. Tanto che, anche loro, cominciano a dar segni di nervosismo. Sul rapporto sofferto che esiste per motivi congeniti tra politici e militari ci siamo già soffermati proprio su questa rivista, e non è il caso di tornarci sopra.
Incomprensioni
Negli Stati Uniti, proprio perché sempre in guerra, questa reciproca difficoltà di comprensione si è manifestata sia con i democratici che con i repubblicani. Con Bush padre ci furono le dimissioni del capo dell’aeronautica, generale Merrill McPeak. Con Bush figlio quelle del capo dell’esercito, generale Eric Shinseki, e del generale Tommy Ray Franks, reduce dall’Iraq, anche se, in realtà, per incompatibilità con il ministro della Difesa Donald Rumsfield: entrambi avevano criticato la scelta di intraprendere una guerra con truppe insufficienti per il controllo del territorio, e i fatti gli hanno poi dato tristemente ragione.
Ma con Obama l’incompatibilità sta diventando endemica, e in questa atmosfera non si possono certo vincere le guerre, né pretendere che il morale dei soldati non sia alle stelle. Ricordiamo il siluramento l’anno scorso di David McKiernan, comandante in Afghanistan, e quest’anno quello di Stanley McChristal, mentre pesano come macigni le critiche del capo dei marines, generale James Conway, e le pacate ma pungenti osservazioni dello stesso Petraeus sulla scadenza – luglio 2011 – fissata da Obama per l’inizio del ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Entrambi ritengono che, dal punto di vista militare, annunciare prima e ribadire poi la data di inizio del ritiro indurrà i talebani a “resistere almeno un giorno di più” e scoraggerà le popolazioni locali dal cooperare con i soldati della coalizione, ben sapendo – per esperienza – quali ritorsioni possono aspettarsi con il ritorno degli islamisti. Eventualità non remota, visto che a garantire la sicurezza ci saranno solo le truppe di Karzai. Di cui gli afgani dei villaggi non si fidano affatto.
Ma le motivazioni di Obama sono politiche, non militari, e così il suo staff si affanna a spiegare che l’aver annunciato una data è un vantaggio, perché spingerà Kabul ad accelerare il passaggio di consegne. Ma nessuno ci crede. Conway, parlando ai reporters, ha affermato che questa guerra, in alternativa allo stallo, può avere solo “…una rapida sconfitta o una lenta vittoria”, mentre Petraeus, per salvare se stesso e il Comandante in capo, comincia a ipotizzare che nel luglio 2011 le condizioni potrebbero essere diverse di quelle attese, rendendo inevitabile un rinvio del ritiro. “Non sono stato mandato qui – ha aggiunto – per un graceful exit, ma per portare a termine la missione. Per la prima volta abbiamo tutto ciò che ci serve”. Vedremo.
La fretta di Obama
Ma il presidente americano ha fretta. Il prossimo novembre si svolgeranno le elezioni di mid-term, e nel 2012 le presidenziali. Dopo tanti set-back in politica estera e in politica interna, con gli indici di gradimento che non sono stati mai così bassi – se, in genere, piace molto agli europei, agli americani Obama piace molto meno – Obama ha bisogno immediato di portare a casa qualche successo, vero o annunciato. È fallita la mano tesa all’Iran, gli effetti della crisi economico-finanziaria si fanno ancora pesantemente sentire, la Cina sta con il fiato sul collo, la Corea del Nord risponde picche, Bin Laden e il mullah Omar sono spariti nel nulla, al-Qaeda avanza in Africa, la marea nera uccide le coste, la riforma sanitaria si è arenata a metà. Non sarà per colpa sua, ma l’aver abilmente suscitato grandi aspettative rischia ora di provocare grandi delusioni. E allora? Via quanto prima dall’Iraq, via anche dall’Afghanistan, e inserirsi come improbabile protagonista nella diatriba israelo-palestinese. Almeno questo va fatto, o, comunque, annunciato.
Se i militari nicchiano, c’è un nugolo di teste d’uovo che, volonterosamente, si affannano a trovare per l’Afghanistan soluzioni che siano compatibili con la fretta del presidente. Tutte le nuove opzioni che si vanno formando appaiono originate dal dubbio che la formula scaturita dalla conferenza di Berlino – sistema democratico con governo centralizzato – non sia né la più adatta né la più gradita. Ad esempio, come ha notato Stefano Silvestri su questa rivista, l’ex ambasciatore Usa in India, Robert Blackwill, sta proponendo di lasciare di fatto al loro destino, unificandole sotto un governo talebano, le due aree pachistane e afgane di etnia pashtun a cavallo della linea Durand, continuando a controllare da Kabul – attraverso governatori designati a livello centrale – le altre province.
Teste d’uovo all’opera
Un altro gruppo di studio – come ci spiega Foreign Affairs – ipotizza allora altre soluzioni, che non alterino le due integrità territoriali. Come quella che prevede che Kabul, pur continuando a nominare i governatori, conceda alle province un certo numero di autonomie, come le tasse locali, l’esercizio della giustizia e la tolleranza di un’aliquota di armati, salvaguardando così, almeno in una certa misura, la percezione di una decentralizzazione amministrativa. Ma in alcune province ciò potrebbe ancora non essere sufficiente, per cui si potrebbe tentare di andare oltre, con una forma di “democrazia decentralizzata”. I governatori verrebbero eletti dai consigli provinciali e avrebbero così maggior confidenza con le varie shure dei villaggi, il cui orizzonte visuale non può certo arrivare agli intrighi di Kabul. In questo caso, è evidente, sarebbe necessario accettare di buon grado alcuni immaginabili compromessi. In cambio, il governo centrale manterrebbe il diritto di intervenire contro i più riottosi, qualora il patto di mantenere “fuori” al-Qaeda non venisse rispettato. In fondo, agli americani e all’Occidente è questo che interessa.
Ma se l’isolamento di al-Qaeda è rimasto il vero problema, visto che ormai a risolvere gli altri – facendo buon viso a cattiva sorte – si è già deciso di rinunciare, allora le teste d’uovo hanno pronta una terza soluzione, applicabile in tempi brevi e, in ogni caso, compatibile con le tempistiche presidenziali. È una soluzione che potremmo chiamare “mista” tra le due precedenti: Kabul si limiterebbe a delegare la maggior parte dei poteri a governatori eletti localmente, a chiudere un occhio su alcuni loro vizietti, a sorvolare sulle prepotenze dei talebani, a mantenere le sue prerogative in politica estera e a riservarsi il diritto di intervenire militarmente in caso di superamento di una “linea rossa” rappresentata dal divieto di ospitare al-Qaeda. Che è come dire “fate pure tutto ciò che vi pare, con l’unico limite che ciò non danneggi gli Stati Uniti e l’Occidente…”. Soluzione dal contenuto etico un po’ dubbio, che però è attuabile e fattibile con celerità. È ciò che d’altronde si sta già facendo in alcune province.
Retromarcia
Così nel 2011, dopo dieci anni, la fine di questa storia potrebbe cominciare a saldarsi con il suo inizio, ancor prima che i talebani fossero battuti. Con tanti auguri per gli afgani e con buona pace per tutti i buoni principi in cui crediamo, per cui abbiamo sopportato anni di sacrifici e in omaggio ai quali qualcuno ci aveva convinto che intervenire era cosa buona e giusta Ma, allora, è stato tutto inutile? Nell’immediato, così potrebbe sembrare. È necessario però avere fiducia, perché, alla distanza, il seme gettato finisce sempre per germogliare. E intanto, se c’è la guerra, è bene dare un po’di ascolto anche ai generali, che non sono degli sconsiderati e il loro mestiere lo sanno fare.
Di Mario Arpino, già capo di SMA e di SMD, è presidente di Vitrociset S.p.A. (tecnologie avanzate, spazio, ingegneria logistica e reti digitali). Giornalista pubblicista, è membro del comitato direttivo dell’Istituto Affari Internazionali.