A Pechino si vendono 1.500 auto al giorno
La cappa quotidiana di un cielo grigio, plumbeo, senza né luci né colori, ti strozza il respiro. Certo: la temperatura polare (anche meno 15) non invoglia a passeggiare, ma nel cuore della metropoli alla guida della locomotiva cinese, senti immediatamente che perfino l’aria sconta il prezzo di un boom economico in piena esplosione, crisi o ripresa che sia. Il traffico nelle ore di punta è infernale, e andrà sempre peggio visto che qui si vendono 1500 automobili al giorno, dall’Audi, status symbol dei mandarini del partito comunista, alla Gm che, nel 2009, ha piazzato in Cina 700mila macchine mentre falliva in America.
Di biciclette se ne vedono sempre meno, specie nei tre anelli del centro cittadino, le piste ciclabili sono state ridotte a piccoli corridoi, anche per fare spazio alle fermate della metropolitana, dove salire è come andare in una curva dei nostri stadi nelle domeniche del derby. Non hai bisogno di muoverti, sono gli altri a spingerti, fino a farti salire: andrà meglio, dicono, quando saranno pronte le altre nove linee dell’underground, già in costruzione con una consegna prevista nei prossimi tre anni, il tempo con il quale noi riusciamo a iniziare la discussione per un parcheggio di quartiere.
L’automobile per un cinese è come un documento anagrafico: certifica il suo ingresso nel paradiso del ceto medio, consumi e benessere; lo rende cittadino, pagamento solo in contanti e niente rate, di una metropoli che nel 2010 sarà popolata da 20 milioni di uomini e donne; cancella, come le ruspe che a Pechino hanno ingoiato qualsiasi traccia del passato e della storia, la sua provenienza da quelle campagne dove pochi anni fa si moriva ancora di fame.
Dopo la macchina c’è la casa. I prezzi degli immobili nella capitale continuano a schizzare, più 35 per cento solo nell’ultimo semestre, i cantieri per nuovi grattacieli sono aperti giorno e notte, e la speculazione ha moltiplicato i valori delle residenze costruite per gli atleti e per i giornalisti in occasione delle Olimpiadi del 2008. Il modello di sviluppo del social capitalismo, autoritarismo in politica e mercato in economia, non perde un colpo. Gira alla velocità di quel treno, il più veloce del mondo, entrato in servizio durante le vacanze di Natale tra le città di Guangzhou e Wuhan, capace di mantenere una velocità tra i 350 e i 390 chilometri l’ora. Un razzo metropolitano. Proprio come il fatturato di un paese che sembra divertirsi, ogni giorno, a declinare urbi et orbi la sua forza, la sua potenza, il suo credo imperialista.
La mattina ti svegli, sorseggi un caffè americano di ottima qualità e la speaker del telegiornale annuncia, con un sorriso ammiccante, che la Cina ha superato la Germania come prima nazione esportatrice nel mondo; il pomeriggio bevi un tè con un personaggio molto vicino alla corte del presidente Hu Jintao e lui ti spiega perché il governo di Pechino ha raddoppiato la spesa militare negli ultimi tre anni. Nuovi missili terra-aria, costruiti con le tecnologie più avanzate, sono stati testati con successo in questi giorni: nessuna rappresaglia agli americani che si permettono ancora di vendere i Patriot ai cugini ribelli di Taiwan, per carità, ma semplicemente la conferma di un’equazione, in base alla quale una superpotenza economica non può non essere anche una superpotenza militare, perché le armi servono innanzitutto, come insegna la storia, a difendere gli affari.
E oggi la storia dice che il mondo dovrà reggersi, e forse già si sta reggendo, sul patto del G2, Cina e America, in ordine non alfabetico. La scossa del momento, in questa diarchia tutta da scontornare, si chiama Google, il gigante del web che, contro la censura di Pechino, alza il vessillo di «Internet libero», una vera bestemmia per il governo cinese «legge e ordine». Minacce, proteste, Hillary Clinton che chiede «spiegazioni», l’opinione pubblica mondiale sconcertata. Ma qui, dove la piazza Tiananmen è solo un via vai di turisti e di poliziotti senza tracce della sua simbologia di luogo della sofferenza antiregime, il caso Google è sgonfiato con la solita legge dei numeri del social capitalismo. I cinesi sono già il primo popolo online del mondo, con 338 milioni di internauti, hanno superato l’America nel 2008 e il mercato della ricerca sul web, nonostante la censura, vale un miliardo di dollari l’anno. A presidiarlo non è Google, che ha solo il 12 per cento del giro d’affari, ma Baidu, il gigante locale del settore. Ergo, sfiatate le proteste del momento, anche questa protesta finirà nel cestino dei ricordi di cronaca.
Come la condanna a undici anni di carcere inflitta al dissidente Liu Xiaobo il giorno di Natale, tanto per evitare che qualcuno fosse distratto, con l’accusa di istigazione alla sovversione contro i poteri dello Stato. Liu, mi spiegano, non marcirà in carcere per le sue opinioni a favore dei diritti umani in Cina, ma per il fatto che ha minacciato di fare un nuovo partito in un paese che non può neanche immaginare questa possibilità. «Legge e ordine», che significa anche niente microcriminalità o una sentenza di condanna a morte se spacci droga, è la bussola di un potere politico autoritario, senza smagliature, capace di coprire qualsiasi angolo della sua lunghissima marcia senza concedere nulla all’avversario. Interno o esterno. Se il dissenso a Pechino è polverizzato, direi di fatto invisibile, il potenziale conflitto con noi occidentali, ormai nani ai piedi del Gigante, è archiviato con i colpi di spugna dei primati a mitraglietta. Passo dopo passo, falcata dopo falcata, i cinesi stanno diventando numeri uno al mondo in tutto e per tutto.
Con una sola, vera incognita, questa sì potenzialmente autodistruttiva, rappresentata proprio dal simbolo di quelle auto che si vendono come i panini di Mc Donald: la Natura. Ciò che neanche la sferza del comunismo o l’euforia del capitalismo possono piegare al silenzio. E la Natura, come racconta il cielo di Pechino, reagisce, alza la voce e piange, fino a rendere il fenomeno di questo boom inarrestabile un’autentica incognita del mondo che verrà. Mentre le esportazioni volano e il made in China dilaga sul mercato interno e in quello internazionale, il Fiume Giallo (Hwang Ho), il primo della Cina settentrionale, la culla della civiltà locale, è diventato una cloaca a cielo aperto, dove migliaia di fabbriche scaricano rifiuti tossici e fino a 15mila litri di gasolio in un sola giornata. Con il risultato che in questi giorni 250 milioni di cinesi si ritrovano senz’acqua potabile: loro magari sognano di trasferirsi a Pechino e comprarsi la macchina americana costruita in Cina, ma intanto rischiano di morire di sete. Come se dietro il sipario con le luci del benessere a portata di mano, ci fosse ancora e solo il buio della miseria.
Di Antonio Galdo (nonsprecare.it)